Sembra ieri

(di Marco Travaglio – Il Fatto Quotidiano) – È il 17 maggio 1972, cinquant’anni fa. Alle 9.10 il commissario Luigi Calabresi, 34 anni, romano, vice-capo dell’ufficio politico della Questura di Milano, bacia i figlioletti Mario e Paolo, di due e un anno, e la moglie Gemma, incinta del terzo bimbo. Esce dal portone di via Cherubini 6, attraversa la strada e raggiunge la sua Fiat 500 blu. Mentre apre la portiera, viene raggiunto alle spalle da un killer sceso da una Fiat 125 blu e freddato con due colpi di rivoltella alla nuca e alla schiena. Muore appena arriva in ospedale. L’attentatore è Ovidio Bompressi, militante di Lotta continua, che risale nell’auto guidata da un altro compagno di Lc, Leonardo Marino, per darsi alla fuga. È il primo omicidio politico degli “anni di piombo”: un trentennio insanguinato che si chiuderà solo nel 2002 con l’assassinio di Marco Biagi.

Lotta continua, a cadavere ancora caldo, festeggia con un comunicato: “L’uccisione di Calabresi è un atto in cui gli sfruttati riconoscono la propria volontà di giustizia”. L’ultima infamia di un lungo linciaggio condotto dal giornale del gruppo extraparlamentare che addita il commissario come il colpevole della morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, precipitato il 16 dicembre 1969 dal balconcino della Questura durante un lungo ed estenuante interrogatorio sulla strage di piazza Fontana (in cui gli anarchici sono stati coinvolti da una velina depistante dell’Ufficio Affari Riservati del Viminale per coprire i neofascisti di Ordine nuovo), sebbene il commissario non fosse nella stanza. In quei deliranti articoli si legge: “Calabresi, sei tu l’accusato… Le nostre armi sono altre, più difficili, faticose, pericolose, ma infinitamente più efficaci… Dell’assassinio di Pinelli abbiamo detto a chiare lettere che il proletariato… saprà fare vendetta” (14.5.’70). “Questo marine dalla finestra facile dovrà rispondere di tutto. Gli siamo alle costole, ormai, ed è inutile che si dibatta come un bufalo inferocito… Di questi nemici del popolo vogliamo la morte” (6.6.’70). “Siamo stati troppo teneri con… Calabresi. Egli si permette di continuare a vivere tranquillamente… Il suo volto è diventato abituale e conosciuto per i militanti che hanno imparato a odiarlo; la sua funzione di sicario è stata denunciata alle masse che hanno incominciato a conoscere i propri nemici di persona, con nome, cognome e indirizzo… Calabresi è responsabile dell’assassinio di Pinelli e dovrà pagarla cara… Il proletariato emetterà il verdetto, lo comunicherà e ancora là, nelle piazze e nelle strade, lo renderà esecutivo… L’eliminazione di un poliziotto non libererà gli sfruttati; ma è… una tappa fondamentale dell’assalto del proletariato contro lo Stato assassino” (6.6.’70).

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“Calabresi, assassino, stia attento. Il suo nome è uno dei primi della lista” (6.5.1971). Calabresi ha querelato Lotta continua (il direttore Pio Baldelli sarà condannato). Ma in quella feroce caccia all’uomo il processo che lo vede parte civile diventa sui media un processo al “Commissario Finestra”, additato alla gogna anche e soprattutto da molti fra i più noti intellettuali italiani (alcuni poi pentiti), che hanno firmato un infame appello sull’Espresso nel giugno 1971 accanto a un articolo di Camilla Cederna, che sposa la fake news di Pinelli defenestrato da Calabresi con un colpo di karate alla nuca. Fra le pochissime grandi firme che lo difendono ci sono Indro Montanelli e Giampaolo Pansa. Ma il commissario è un uomo solo anche in Questura: nessuno pensa di dargli neppure una scorta (il killer lo coglierà disarmato).

Le indagini, tra errori giudiziari, false piste e vera omertà, brancolano nel buio per 16 anni. Finché il 28 luglio 1988 i giudici milanesi arrestano Adriano Sofri, già leader di Lc (sciolta nel 1976), ora scrittore e professore di belle arti, legato al socialista Claudio Martelli; Giorgio Pietrostefani, già capo del servizio d’ordine di Lc, passato dalla rivoluzione al para-Stato come dirigente di Eni, Snam e Officine Meccaniche Reggiane; e Ovidio Bompressi, che vende libri a Massa, proletario come Marino, che vende frittelle in un furgone per strada a Bocca di Magra. È proprio Marino il “pentito” che ha confessato tutto dopo anni di tormento: prima davanti a un prete, poi a un deputato comunista ed ex partigiano, infine ai carabinieri. Sulle prime parla solo di sé e di Bompressi; poi i giudici Antonio Lombardi e Ferdinando Pomarici lo convincono a svelare i mandanti: Sofri e Pietrostefani. Il telefono di casa Sofri, intercettato, sforna un illuminante spaccato della lobby di Lc mobilitata come un formicaio impazzito per organizzare la campagna innocentista, l’attacco ai magistrati e a Marino su giornali, reti Rai&Fininvest e in Parlamento, soprattutto attraverso il Psi e i suoi mazzieri (Ferrara e molti altri). Nel 1996, dopo infiniti colpi di scena, depistaggi processuali a mezzo stampa e leggi ad personam (per spostare l’istanza di revisione da Milano a Brescia e poi a Venezia), Sofri, Pietrostefani e Bompressi vengono condannati in via definitiva a 22 anni. Marino è prescritto per l’attenuante della collaborazione e i ricorsi in appello degli altri. Sofri sconta in carcere 7 anni; Bompressi molti meno (sarà graziato); Pietrostefani appena due, poi approfitta della revisione per fuggire a Parigi, dove è tuttora latitante. Gli anni di piombo sono finiti. Il malvezzo di linciare persone perbene che non possono difendersi, invece, continua.

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