Era fin troppo facile da prevedere. Il comitato promotore del referendum abrogativo che propone di cambiare la legge sulla concessione della cittadinanza italiana è riuscito a raccogliere le 500 mila firme richieste sulla piattaforma digitale del Ministero della Giustizia e nella maggioranza si comincia a mettere in discussione il sistema di raccolta.
In testa c’è il ministro per gli Affari regionali e le Autonomie Roberto Calderoli che lamenta la soglia “troppo bassa” delle 500 mila firme. “Forse andrebbero ripensate anche le soglie minime delle adesioni per avviare referendum o proposte di legge di iniziativa popolare”, disse già ad agosto in un’intervista a Il Sole 24 ore ancora frastornato dal referendum che promette di sgretolare la sua decantata autonomia differenziata. In queste ore nella maggioranza sono in molti a essere tentati dal colpo di mano per rendere più disagevole la raccolta firme.
La storia si ripete: il dibattito sulle firme referendarie
La storia dei tentativi di modificare le regole referendarie è lunga quasi quanto la Repubblica stessa. Già nel 1947, durante i lavori dell’Assemblea Costituente, si discusse animatamente sulla soglia delle firme. Costantino Mortati, padre costituente democristiano, propose inizialmente una soglia pari a un “ventesimo degli elettori”, che all’epoca equivaleva a circa 1,4 milioni di firme. La proposta fu oggetto di un acceso dibattito: alcuni la ritenevano troppo alta, altri troppo bassa. Alla fine, si giunse al compromesso delle 500 mila firme, inserito nell’articolo 75 della Costituzione.
Da allora, il tema è riemerso ciclicamente nel dibattito politico. Nel 2005, alcuni parlamentari sostenevano che il numero più giusto sarebbe stato 750 mila elettori. Nel 2003, si parlava di un milione o 700 mila firme. Durante la quindicesima legislatura (2006-2008), il senatore Cosimo Izzo di Forza Italia suggerì addirittura una soglia di 2 milioni di firme.
La digitalizzazione ha riacceso il dibattito. La possibilità di raccogliere firme online ha reso il processo più rapido ed efficiente, come dimostrato nel 2021 dalla campagna referendaria sulla cannabis, che raggiunse le 500 mila firme in una settimana. Questo successo ha allarmato parte della classe politica, che ha iniziato a invocare nuove regole.
La reazione del governo: eludere il merito, cambiare le regole
Di fronte al recente successo della raccolta firme per il referendum sulla cittadinanza, la reazione della maggioranza sembra seguire un copione già visto. Invece di confrontarsi sul merito della proposta, si mette in discussione il metodo. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni, da New York, ha dichiarato: “Penso che il termine dei dieci anni sia congruo, penso che l’Italia abbia un’ottima legge sulla cittadinanza”. Una posizione che sembra ignorare la volontà espressa da mezzo milione di cittadini.
Meloni ha anche preso le distanze dall’iniziativa degli alleati di Forza Italia, che propongono di concedere la cittadinanza a chi ha studiato in Italia per almeno dieci anni. “Non conosco la proposta”, ha affermato la premier, mostrandosi fredda verso qualsiasi apertura sul tema.
L’atteggiamento della maggioranza, divisa tra chi vuole cambiare le regole e chi preferisce non affrontare l’argomento rivela la difficoltà nel gestire il dibattito sulla cittadinanza. Un tema che evidentemente mette in luce contraddizioni all’interno della coalizione di governo.
Il successo della raccolta firme ha colto di sorpresa una classe politica abituata a dettare l’agenda. Ora, di fronte a una chiara manifestazione di volontà popolare, la reazione sembra essere quella di alzare muri o spostare l’attenzione su questioni procedurali. L’importante, come sempre con questo governo, è svicolare dal merito delle questioni.
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