Le Vespe Terese

L’editoriale di Marco Travaglio

Le Vespe Terese

Alla demenziale decisione della Schlein di duettare con la Meloni in quella che chiama TeleMeloni, legittimandola proprio nella sua quintessenza che è Porta a Porta, cioè TeleLingua, sono seguite le richieste altrettanto folli dei 5 Stelle e degli altri partiti a Bruno Vespa di inscenare anche per loro siparietti analoghi in nome della par condicio. Come se la par condicio non fosse irrimediabilmente violata proprio dal faccia a faccia fra la premier e la segretaria Pd a due settimane dal voto con l’incredibile avallo di Rai, Agcom e Vigilanza. Ci avevano già provato la Meloni ed Enrico Letta alla vigilia delle Politiche del 2022 e l’Agcom li aveva stoppati proprio in nome della par condicio, tant’è che traslocarono sul Corriere.it (dove fecero dormire tutti). Ora Meloni&Schlein la violano triplamente: perché, diversamente da Meloni&Letta nel 2022, si candidano alle Europee solo per finta; perché alle Europee si vota col proporzionale, ogni partito per conto suo senza coalizioni; e perché non c’è motivo di mettere a confronto due leader alla volta, né di partire con Meloni&Schlein, né di metterle in coppia fra loro e non con altri. Si dirà: valgono i voti delle Politiche. Ma allora con la Meloni dovrebbe duellare (si fa per dire) Letta: nel 2022 la Schlein non solo non era segretaria del Pd, ma neppure iscritta. Se Vespa, alla vigilia delle elezioni del 2013, avesse seguito l’ordine di quelle del 2008, avrebbe invitato B.&Veltroni, salvo poi scoprire dalle urne che i primi due partiti appaiati erano Pd e M5S, che nel 2008 non esisteva e cinque anni dopo balzò da zero al 25,5%. E, se valessero i voti del 2022, sarebbero esclusi Stefano Bandecchi, Cateno De Luca e Michele Santoro.

Quindi la graduatoria vespiana dei leader si basa sui sondaggi? Ma, se così fosse, il leader con più consensi dopo la Meloni è Conte, che stacca sempre la Schlein di 5 o 6 punti. Ma sarebbe assurdo basarsi su dati tanto aleatori. L’unica soluzione equa è sorteggiare le coppie e l’ordine di apparizione. Ma poi, se il numero dei leader è dispari, quello rimasto da solo con chi si confronta: con un cartonato? Con uno specchio? Con un avatar di ChatGpt? Di tanta assurdità si erano accorte persino Meloni e Schlein che, prevedendo un veto dell’Agcom, s’apprestavano ad aggirarlo su Instagram, nel Far West dei social. Invece l’Agcomica ha dato l’insperato ok. Da qualunque lato lo si guardi, il duetto delle due Vespe Terese è una sconcezza contro ogni regola e decenza. E i leader esclusi farebbero bene a non prestarsi come foglie di fico a legittimarlo replicandolo in scala minore nelle serate successive. Lo sketch delle due finte candidate deve rimanere un unicum nella storia, come il Gronchi rosa per i filatelici: un reperto di TeleRegime a imperitura memoria.

 

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Pizzini aretini

L’editoriale di Marco Travaglio

Pizzini aretini

L’altro giorno abbiamo letto il solito pezzo fantasy del Foglio, “Un Loft in Rai per il Fatto quotidiano” e ci siamo domandati chi sarebbe stato così fesso da crederci. La risposta è arrivata a stretto giro: Maria Elena Boschi che, per via dell’occhio acuto, è vicepresidente della Vigilanza. E, in un’amorevole intervista di Giovanna Vitale su Repubblica (manca solo la domanda “Ma come fa a essere così brava?”), riesce addirittura a superare i suoi classici standard di sagacia. 1) Scopre che la Rai acquista anche format esterni (gli amici Lucio Presta, Simona Ercolani &C. le nascondono proprio tutto), anzi uno solo: La confessione di Peter Gomez, prodotta dalla nostra Loft e andata in onda su Rai3 per meno di due mesi in 7 puntate dai costi irrisori (fra l’altro nel 2024, mentre la tapina parla del bilancio 2023). 2) “I conti della società Seif, proprietaria del Fatto quotidiano, si reggono sui programmi venduti da Loft. Non lo dico io: è scritto nell’ultimo bilancio”. Quindi la poverina non sa leggere o non capisce ciò che legge: nell’ultimo bilancio i ricavi Seif si reggono sui contenuti media (tra cui Loft) per l’8,59% e sui prodotti editoriali (Fatto, sito e libri PaperFirst) per l’80,71%. 3) “Loft potrebbe far cassa grazie alla Rai e salvare il giornale… e Travaglio… dal possibile fallimento… con soldi dei contribuenti”. Il che detto, da una delle massime esperte mondiali di fallimenti (dal Pd renziano alla Banca Etruria mirabilmente amministrata da suo padre alla sua schiforma costituzionale, molto apprezzata in Niger), è uno spottone alla solidità dei nostri conti, peraltro migliorati del 45% dal 2022 al ‘23.

4) Lubrificata dalla ficcante domanda “È la ragione per cui Travaglio insiste col dire che non c’è alcuna occupazione militare della Rai, che la destra sta facendo quello che ha fatto la sinistra?”, la ex lobbista di Etruria sostiene che io sarei in “conflitto d’interessi” perché il Fatto “non esprime mai una critica verso la Rai dell’era Meloni”, anzi “Travaglio usa i guanti di velluto, arriva proprio a difenderla”. A parte la rubrica Cinegiornale Luce sulle marchette dei tg Rai e le centinaia di commenti di Padellaro, Valentini, Lerner, Crapis, Delbecchi giù giù fino al sottoscritto che ha appena definito i vertici meloniani “mix di servilismo e stupidità”, “così fessi da sembrare censori anche le rare volte in cui non lo sono”. Il che conferma che la nota aretina non sa leggere o non capisce ciò che legge, o entrambe le cose. Però è dotata di notevole humour: sennò non accuserebbe gli altri di lottizzare la Rai, avendola i renziani occupata al 100% nel 2014-‘19 e seguitando a occuparla in tante caselle chiave, dalla presidenza della Soldi al Tg3 di Moiro Orfeo, ora che non li vota più nessuno.

 

E non accuserebbe uno dei rari giornali di opposizione di non opporsi abbastanza mentre lei e tutta Iv si alleano con le destre in mezza Italia, votano le loro peggiori porcate e si astengono sul premierato. È spiritosa almeno quanto Repubblica, che grida un giorno sì e l’altro pure alle censure altrui avendo un direttore appena sfiduciato per aver mandato al macero 100 mila copie nottetempo per far sparire un articolo che pensava sgradito al padrone. 5) “Loft pare stia trattando con la Rai per la vendita di altri programmi”. E qui, dobbiamo confessarlo, la signora in giallo di Laterina ci ha sgamati. Dopo aver rifiutato per anni qualsiasi proposta di condurre tg e programmi Rai per via della lottizzazione, abbiamo appena rotto gli indugi, concordando coi vertici Rai un palinsesto tutto Fatto, dall’alba al tramonto: roba da far impallidire TeleRenzi e TeleDraghi, dove Pd&Iv piazzavano i meglio fichi del gruppo Espresso & Gedi, uscieri inclusi, come presidenti, direttori, conduttori, rubrichisti e ospiti fissi. Io dirigerò il Tg1 e vi trasferirò la nostra squadra di inchiestisti, perché la Meloni ha molto apprezzato i nostri scoop sui suoi Sgarbi, Santanchè, Lollobrigida, Crosetto, Corsini e la sua nuova villa con piscina. Gomez andrà al Tg2, per rilanciarli da par suo. La Lucarelli guiderà il Tg3: i vertici Rai hanno adorato i suoi colpacci su Montesano a Ballando e sulle marchette sanremesi alle sneakers di Travolta. Molti i talk show: Maddalena Oliva su gender e diritti delle donne; Silvia Truzzi su premierato e autonomia; Montanari e Lerner sul ritorno del fascismo e i migranti perseguitati; Basile, Fini, Mini, Orsini e Spinelli sulla geopolitica e i disastri meloniani da Kiev a Gaza; Lillo e Barbacetto sulle schiforme giudiziarie con Caselli, Davigo ed Esposito; la Ranieri sull’egemonia culturale della destra. Sommi rileverà Porta a Porta da Vespa, ormai inviso ai Melones per l’aggressività del suo giornalismo investigativo. Natangelo, venerato da Giorgia e soprattutto da Arianna e Lollo per le vignette sul lettone, avrà un programma di satira con Mannelli, Vauro e Disegni. Scanzi andrà in prima serata con lo spettacolo La Sciagura. Inutile precisasre chi saranno il presidente e l’ad di TeleFattoMeloni: Antonio Padellaro e Cinzia Monteverdi.

Molti lettori ci scrivono di non farci intimidire dai pizzini boschiani, e vogliamo rassicurarli: non ci sono riusciti B., Previti, Dell’Utri&C., figurarsi questa. Altri ci invitano a querelarla e ne faremmo volentieri a meno, visto che i renziani votano regolarmente l’impunità agli altri e gli altri la votano a loro. Ma a nessuno è consentito di mentire sui bilanci di un gruppo quotato in Borsa. Quindi ci vedremo nell’habitat che più le è congeniale: il tribunale.

 

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Famo Casino Day

L’editoriale di Marco Travaglio

Famo Casino Day

rmai non c’è più festa nazionale che non venga usata da questo o quel partito per farsi propaganda, confidando nelle telecamere in piazza e nella smemoratezza storica generale. Accade dal 2022 col 25 Aprile, festa della Liberazione dal nazifascismo, dove si imbucano le delegazioni ucraina e palestinese, che storicamente c’entrano come i cavoli a merenda. L’Ucraina nel 1941 accolse i nazisti come liberatori in funzione anti-sovietica e nei tre anni di controllo hitleriano sterminò un milione di ebrei e deportò gli altri due in Germania, fino alla liberazione da parte dell’Armata Rossa. Negli stessi anni la dirigenza palestinese intorno al Gran Muftì di Gerusalemme, devoto fan e alleato di Hitler e Mussolini, reclutava SS musulmane e progettava stermini di ebrei, mentre la Brigata ebraica combatteva i nazifascisti. Le colpe dei padri non ricadono sui figli, e neppure i meriti, ma ci sarà un motivo se il 25 Aprile non lo festeggiamo coi tedeschi (mentre dovremmo farlo con gli americani, gli inglesi e i russi). Anche il Primo Maggio, col governo Meloni, è diventato tutt’altro che la Festa dei Lavoratori: una passerella per approvare i “decreti 1° Maggio”, che non fanno nulla per i lavoratori, ma infilano le solite mance nelle tasche dei padroni, mentre a chi lavora si nega pure il salario minimo e a chi cerca lavoro si ruba il reddito di cittadinanza.

 

Ora tocca al 2 Giugno, Festa della Repubblica nell’anniversario del referendum del 1946 che abolì la monarchia perché, dopo i meriti acquisiti con l’Unità d’Italia, si era macchiata della ventennale complicità col fascismo. Il Pd annuncia che la trasformerà in una manifestazione contro il premierato meloniano. Che è una boiata pazzesca e va contrastata con ogni mezzo lecito. Ma non il 2 Giugno, che c’entra col premierato quanto la Sagra della porchetta ad Ariccia e la Fiera del bue grasso a Carrù. A parte il fatto che l’aveva già proposta l’Ulivo nella Bicamerale del 1997, l’elezione diretta del premier non ripristina la Monarchia né altera la forma repubblicana dello Stato. Usa la procedura prevista dalla Costituzione per stravolgere gli equilibri fra governo, Parlamento, capo dello Stato e poteri di controllo. Ma il 2 Giugno è anche la festa dei presidenzialisti, come di tutti quelli che scelsero Repubblica contro Monarchia (che, se avesse vinto, dopo il più che degno Umberto II, ci avrebbe regalato sul trono Vittorio Emanuele IV e ora Emanuele Filiberto). Perciò dovrebbe accomunare tutti i partiti repubblicani, da destra a sinistra, esclusi solo i monarchici, che invece festeggiano a buon diritto il 25 Aprile perché sedettero nel Cln e contribuirono alla Liberazione. Ma questi politici dove l’hanno studiata la Storia: su Tiramolla?

 

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Dio non esiste

L’editoriale di Marco Travaglio

Dio non esiste

Per 15 mesi abbiamo sperato che Elly Schlein cambiasse nel Pd qualcosa oltre al segretario, criticandola perché non lo faceva. Ora, dimenticando per un attimo l’incredibile candidatura finta alle Europee, merita solo applausi per aver firmato il referendum Cgil contro il Jobs Act. Mossa che comprensibilmente terremota il partito, perché vi ha lo stesso effetto che avrebbe sulla Chiesa un’enciclica del Papa dal titolo: “Dio non esiste”. Da quando nacque con Veltroni, peggiorò con Napolitano e Letta, s’infettò con Renzi e defunse con ri-Letta al seguito della fantomatica Agenda Draghi, il Pd ha sempre venerato la trimurti Lavoro precario-Sussidi alle imprese-Paghe da fame: dalla legge Treu al Jobs Act, dall’abolizione dell’articolo 18 ai voucher di Gentiloni, dai no al Reddito di cittadinanza e al dl Dignità del Conte-1 alla restaurazione draghiana che smantellò il dl Dignità, attaccò il Rdc e levò il salario minimo dal Pnrr contiano. Lo chiamavano “riformismo”, parolaccia che nasconde il più ciclopico fallimento della storia e che la gente perbene ha imparato a neutralizzare dotandosi di mutande di ghisa e da camminare rasente al muro. Infatti la setta degli adoratori superstiti della Trimurti, accampati fra Azione e Iv, veleggia fra il 5 e il 6% ni sondaggi.

 

Il guaio, per la Schlein, è che il 99% del Pd, anche quello che sta con lei, dieci anni fa votò il Jobs Act senza fare un plissé. Il che spiega, con tutte le altre scelte demenziali, perché i dem non si schiodano dal 19-20% e hanno ancora i 5Stelle alle calcagna: perché il M5S diceva 10-15 anni fa ciò che il Pd dice solo ora (su Rdc, dl Dignità, salario minimo, Jobs Act, spesa militare) o dirà domani. A proposito di domani: ora che persino il Corriere, con un ottimo commento di Massimo Nava, invita tutti (in primis il Corriere) a non “zittire come filorusse le voci critiche” su Kiev, a smetterla di “riempire di armi l’Ucraina prolungandone l’agonia” e a scoprire “un po’ di realismo che tenga conto dei rapporti di forza” (Orsini, è lei?), forse prima o poi il Pd smetterà di votare con le destre per la guerra a oltranza fino all’ultimo ucraino (salvo ammettere di aver candidato Tarquinio, Strada e Cristallo come foglie di fico). Poi forse la pianterà di astenersi sulle schiforme della giustizia, di fare inceneritori e opere inutili da Calce&Martello e di negare ai giudici le prove contro Renzi&C. Se poi prendesse a prestito dai 5Stelle le regole che vietano di candidare voltagabbana e poltronari con sei, sette, dieci mandati, Elly si libererebbe gratis di tutti i famosi cacicchi ed eviterebbe pure scandali tipo Puglia, Sicilia e Piemonte. Ma soprattutto scioglierebbe il famoso nodo del rapporto con Conte: a quel punto 5Stelle e Pd sarebbero la stessa cosa e potrebbero tranquillamente fondersi.

 

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Toti e le malefemmine

L’editoriale di Marco Travaglio

Toti e le malefemmine

Ora che Giovanni Toti s’è guadagnato il meritato terzo mandato (quello di cattura), l’unico stupore è che fosse rimasto a piede libero così a lungo. Mancava solo lui nella foto di gruppo degli ex-allievi della scuola berlusconiana di furto con scasso e/o mafiosità finiti in manette: Previti, Formigoni, Galan, Brancher, Verdini, Dell’Utri, Cuffaro, Cosentino, Matacena, D’Alì (altro che rimpiangere B.). Chiunque in questi nove anni abbia frequentato, anche di sfuggita, la sua Liguria, il sistema di potere che gli girava intorno l’ha respirato nell’aria. Il Fatto ha pubblicato decine di inchieste sul Sistema Liguria, che si è retto e ha prosperato anche grazie al silenzio più o meno prezzolato della stampa nazionale e locale e al consociativismo del principale partito di cosiddetta opposizione: il Pd. A parte i 5Stelle, l’unico esponente del centrosinistra che l’ha denunciato (anche in Procura) è Ferruccio Sansa, che prima di candidarsi contro Toti scriveva per noi dopo aver provato invano a farlo su vari giornaloni. Intanto i ras “progressisti” liguri lo deridevano come un “Don Chisciotte” solitario e velleitario.

 

La nuova questione morale partita dalla Puglia e proseguita a Torino e in Sicilia fa ora tappa in Liguria. Il comune denominatore, al di là del folklore delle fiches da casinò e delle escort da casino, sono i voti comprati (anche mafiosi); le mazzette elettorali di imprenditori che un tempo dovevano svenarsi per comprarsi i politici e adesso allungano loro mancette da straccioni; e il trasversalismo che tutto copre. E si esprime in due forme diverse: al Sud (vedi Puglia e Sicilia) trasformisti e voltagabbana si mettono all’asta migrando da destra a sinistra o viceversa per stare sempre con chi comanda, senza mai incontrare un buttafuori che li cacci sull’uscio; al Nord (vedi Piemonte e Liguria) il consociativismo centrodestra-centrosinistra garantisce i comuni affari e malaffari secondo la regola “una mano lava l’altra”, senza neppure la fatica dei traslochi. Mollata FI, Toti si era piazzato nella morta gora del “centro” per alzare il suo prezzo e far pesare meglio i voti raccattati come ora sappiamo. Un “centro” sempre osannato dai media come paradiso dei “moderati” e “riformisti” per nascondere la mangiatoia dei voti comprati e clientelari che lo alimentano artificialmente. Una mangiatoia che molti cittadini, anzi sudditi conoscono benissimo per averne ricevuto le briciole o perché sperano di assaporarle, il che spiega il successo nel voto locale di questi centrini senza capo né coda. Ora naturalmente il centrodestra, mentre cavalca le retate sul Pd in Puglia, strilla alla “giustizia a orologeria”. Ma qui l’unico rilievo che si può muovere all’orologio dei magistrati è quello di portare qualche anno di ritardo.

 

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È già successo tutto

L’editoriale di Marco Travaglio

È già successo tutto

A sinistra è tutto un ripetere che il governo Meloni fa rimpiangere B., si stava meglio con lui, nemmeno lui aveva osato tanto. Su Repubblica, Paolo Garimberti parla dello sciopero alla Rai perché la destra la lottizza al posto della sinistra e riesce a dire che i Melones la vogliono “al loro servizio”, mentre B. con la sua “saggezza o furbizia” garantiva “una parvenza, non soltanto formale, di pluralismo al servizio pubblico”. Forse perché nel 2009 Garimberti divenne presidente Rai in quota Pd con i voti di tutti i partiti, in maggioranza berlusconiani: una Rai così pluralista che aveva Masi dg, Minzolini al Tg1 e mise in fuga Santoro dopo due anni di guerra aperta ad Annozero. Roberto Saviano dice che i censurati da B. stavano meglio dei censurati dalla Meloni perché allora il mercato editoriale era più florido (infatti Mondadori lo lanciò con Gomorra). Ma è e l’opposto: la Rai di B. cacciò Biagi, Luttazzi, Santoro, Freccero, Sabina Guzzanti e tanti altri, che non trovarono posto in altre tv perché Rai, Mediaset e La7 erano berlusconiane, mentre oggi La7 e Nove fanno incetta di star in fuga dalla Rai (che, al momento, non ha cacciato nessuno). L’ex pm Armando Spataro parla di norme sulla giustizia che “finiscono persino col far rimpiangere l’era berlusconiana”: forse s’è scordato che sono tutte copiate da B., a parte il fatto che la premier è incensurata, non ha aziende, non è miliardaria, non ha mai finanziato la mafia né frodato il fisco né truffato orfane né corrotto giudici e politici né falsificato bilanci né varato 80 leggi ad personam né definito i giudici “cancro da estirpare”, “come le Br” e “la banda della Uno Bianca”, “matti, antropologicamente diversi dalla razza umana”. L’attacco all’azione penale obbligatoria, anch’esso targato B., è partito con la schiforma Cartabia che gran parte delle toghe progressiste incredibilmente osannarono. E la boiata dell’Alta Corte per sottrarre al Csm i giudizi disciplinari è un’ideona di Violante datata 2011 e sposata nel 2021 da un ddl del Pd. Che infatti a B. non fece mai vera opposizione, fra Bicamerali, dialoghi veltroniani e inciuci renziani: 30 anni di larghe intese, anche sul precariato, l’attacco alla Costituzione, i bavagli, le censure, il premierato e l’autonomia differenziata.

 

Opporsi alle porcate meloniane è sacrosanto, ma a patto di conservare un po’ di memoria e di pudore: solo chi li ha persi può rimpiangere B.. Che è stato il peggio del peggio e nessuno, per quanto si sforzi, riuscirà mai a eguagliarlo, tantomeno a superarlo. Perciò il continuo “al lupo al lupo” sul ritorno del fascismo suona fesso e cade in un misto di fastidio e indifferenza. Dopo il fascismo l’Italia ha conosciuto un solo regime autoritario: quello pluto-mediatico di B.. Tutto il resto è noia.

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El Drito colpisce ancora

L’editoriale di Marco Travaglio

El Drito colpisce ancora

Nella sua rubrica sul sito del Corriere, il sempre acuto Polito el Drito commenta da par suo la truffa edilizia subita da Rocco Casalino, responsabile comunicazione dei 5Stelle. Che, se non se l’è cercata, se l’è quantomeno meritata. Casalino ha denunciato una ditta che, dopo aver incassato 41 mila euro più Iva per ristrutturare casa sua, è sparita senza finire i lavori. E questo, secondo il sagace ex deputato della Margherita ed ex direttore del Riformista, non è colpa degli eventuali truffatori, ma “una nemesi di alcune idee chiave che il movimento fondato da Casaleggio e Grillo ha introdotto nella nostra cultura”: un “insuccesso principio ‘uno vale uno’, perché purtroppo le ditte sono tutte uguali”. Ecco, se Casalino non fosse un grillino, si sarebbe “fatto consigliare da un esperto del settore”: invece ha seguito l’“uno vale uno” di Casaleggio e s’è messo in casa una manica di truffatori. Naturalmente Casaleggio non ha mai teorizzato simili scemenze. Il suo “uno vale uno” è la riedizione postmoderna del principio democratico “una testa un voto”, che nella sua utopia di un percorso lungo e graduale verso la democrazia diretta restituisce al cittadino il ruolo centrale che aveva nell’Atene di Pericle, valorizzando il suo voto e le sue proposte sulla nuova agorà: il web. Lì “uno vale uno”, con pari opportunità di partenza, ma l’uno non vale l’altro: anzi, al contrario, è proprio dagli scambi orizzontali di idee che chi propone le migliori può emergere verticalmente sugli altri, senza i favoritismi, i familismi, le tessere, le lobby e le cooptazioni che bloccano o incrostano in Italia l’ascensore sociale.

 

Leggere Casaleggio non è obbligatorio, ma prima di giudicarlo aiuta: sennò si fa la figura del Polito. Che non ha mica finito, eh no. Siccome la figlia di uno dei titolari della ditta denunciata da Casalino “è una nota influencer”, ecco smascherato il secondo peccato originale dei 5Stelle: “l’illusione della democrazia del web dove la notorietà viene scambiata per qualità” (quando basta la presenza di Polito sul web per segnalare l’abissale distanza fra notorietà e qualità). Quindi, subornato da Casaleggio, Casalino è accusato di aver scelto la ditta sia perché era sconosciuta sia perché era famosa. E non basta: “Resta da sperare che Casalino o la sua ditta non abbiano fatto ricorso a bonus edilizi”, sennò – nota l’astuto Polito – “si tratterebbe davvero di un contrappasso dantesco per uno dei pentastellati più noti”. Se ne deduce, nella speciale logica politiana, che i pensionati falsi invalidi e i finti disoccupati che lavorano in nero sono colpa dello Stato sociale. E l’evasione fiscale è colpa di chi ha inventato le tasse. Ora si spera che nessuno truffi Polito el Drito: altrimenti, invece di denunciare il truffatore, è capace di chiedere i danni ai 5Stelle.

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Ora tocca a noi

L’editoriale di Marco Travaglio

Ora tocca a noi

A furia di leggere sugli altri giornali ciò che scrivevamo due anni fa, le tentazioni sono tre: chiedere il copyright; congratularci con i colleghi per la prontezza di riflessi e suggerire loro di trasformare i loro quotidiani in riviste biennali; cambiare testata al Fatto in Come volevasi dimostrare. Dopo 26 mesi di balle sul default di Mosca, il golpe anti-Putin (peraltro morente o già morto), le armi Nato decisive per la “svolta” e la “sconfitta russa”, le controffensive ucraine primavera-estate, l’Armata Rotta in ritirata e le accuse di putinismo a chiunque dicesse le cose come stavano, ora tutti scoprono che la vera offensiva la fa Putin e ciò che manca a Zelensky sono gli uomini da mandare al macello: la guerra per procura non funziona; più armiamo l’Ucraina, più i russi la devastano; e il cessate il fuoco e il negoziato, inopinatamente scambiati dalla Nato e quindi da Zelensky per regali a Putin, sarebbero manna per gli ucraini, ma ora che i russi sfondano toccherà pregarli in ginocchio. Se si fosse dato retta al generale Milley (americano, non russo) e ai “pacifinti” nell’autunno ’22, mezzo milione di morti fa, oggi Nato&Kiev negozierebbero in piedi, anziché genuflesse dopo una tale disfatta. Ma Dio acceca chi vuole perdere. E infatti il leader più stupido d’Europa, Macron, persevera sull’ideona di inviare truppe Nato “se i russi dovessero sfondare le linee del fronte”: come se non le avessero già sfondate nel 2014 in Crimea e nel 2022 nel Donbass e negli oblast di Zhaporizhzhia e Kherson e ora non stessero prendendosi ciò che ancora gli serve (per annetterselo o magari per scambiarlo in un negoziato che conviene sempre più a noi e sempre meno a loro).

Mai come ora in Europa servono politici che dicano la verità e preparino subito quel tavolo che tutti sanno essere necessario e urgente per salvare il salvabile dell’Ucraina e risparmiarci la terza guerra mondiale. Ma dipende da noi. L’ultima chance l’avremo alle Europee, se bocceremo i partiti bellicisti che hanno sempre votato le armi a Kiev, l’aumento delle spese militari (anche coi fondi del Pnrr) e financo la risoluzione Ursula che vaneggia di “vittoria” contro la Russia con la riconquista di tutti i territori, Crimea inclusa: cioè FdI, Lega, FI, Pd, Azione, Iv, +Europa. Si sperava che la Schlein si scusasse con gli elettori per i tragici errori reiterati più e più volte dal Pd e promettesse di non ripeterli mai più. Poteva farlo presentando i candidati pacifisti Cristallo, Strada e Tarquinio. Invece, appena i tre parlano di pace a Kiev e a Gaza, vengono subissati di insulti e imbarazzi dai “riformisti” del Pd e la segretaria tace. Come se fossero tre foglie di fico, trompe-l’œil, figurine per coprire una linea bellicista immutabile persino dinanzi al più cocente fallimento sul campo.

 

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Rovescio internazionale

L’editoriale di Marco Travaglio

Rovescio internazionale

Un anno fa la Corte penale internazionale (Cpi) spiccò un mandato di cattura per Putin, accusato di crimini di guerra per circa 19 mila bambini ucraini trasferiti in Russia: grande giubilo da Usa e Kiev, che però non riconoscono la Cpi per non dover ammettere i propri crimini. In sei mesi Netanyahu ha sterminato a Gaza circa 35 mila civili, di cui 15 mila bambini (su una popolazione di 2,5 milioni, contro i 10 mila civili morti in 26 mesi in Ucraina su 40 milioni di abitanti), ma per lui niente mandati di cattura. Anzi, si legge che la Cpi sarebbe pronta a spiccarne uno, ma potrebbe soprassedere se Bibi firmasse la tregua voluta da Usa e Uk. È l’ennesima prova che la Cpi è un organo politico travestito da tribunale, che processa solo chi fa comodo agli Usa. E il diritto internazionale è pura fiction per nascondere la legge del più forte. Gli Usa inviano altri 61 miliardi a Kiev, per un totale di 322 sborsati in due anni da Nato&Ue; e Blinken intima a Pechino di non aiutare la Russia. Resta da capire perché mai noi possiamo armare e finanziare un Paese in guerra (nei due anni di invasione russa e negli otto di aggressione ucraina al Donbass) e la Cina no. Ora l’Occidente studia nuove sanzioni contro l’Iran per la rappresaglia senza vittime su Israele, ma non sanziona Israele che per primo attaccò l’Iran bombardando la sua ambasciata a Damasco e uccidendo almeno 13 persone.

La ciliegina sulla torta del diritto internazionale divenuto rovescio è la reazione ipocrita alla decisione di Mosca di nazionalizzare temporaneamente le filiali russe dei marchi europei Bosch e Ariston (che peraltro ha sede legale in Olanda, tant’è che i russi ci sbeffeggiano: “Non sapevamo fosse un gruppo italiano…”). Anche qui sembra di stare nella fiaba del lupo e dell’agnello: i primi a infrangere il diritto internazionale sulla proprietà privata e l’inviolabilità degli asset degli Stati siamo stati noi occidentali con le sanzioni a Mosca del 2022. Oltre ai soliti embarghi commerciali, abbiamo bloccato e preso in ostaggio oltre 300 miliardi di dollari della Banca centrale russa – beni di Stato e di privati – che ora Usa, Uk, Canada, Giappone e mezza Ue vorrebbero pure espropriare per armare e ricostruire l’Ucraina. Lo scippo di Putin è un fallo di reazione alla nostra mega-rapina. Quattro secoli prima di Cristo, Alessandro Magno interrogò il famigerato pirata Diomede che, appena catturato, attendeva la condanna a morte: “Chi ti dà il diritto di navigare depredando cose non tue?”. E il pirata: “E a te, imperatore, chi dà il diritto di fare altrettanto, dalla Persia all’Egitto all’India? Poiché uso solo la mia barca, io sono chiamato pirata. Tu invece usi la tua flotta e sei chiamato imperatore”. Alessandro, touché, lo graziò.

 

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Giorgia detta Giorgia

L’editoriale di Marco Travaglio

Giorgia detta Giorgia

Memore del caso del forzista Deodato Scanderebech, che regalava un normografo col suo nome e cognome temendo che gli eventuali elettori sbagliassero a scriverli, Giorgia Meloni ha voluto agevolare i suoi seguaci. Che lei reputa talmente svegli da entrare nel panico quando, soli e indifesi nella cabina elettorale, devono scrivere un nome strambo come Giorgia e un cognome complicatissimo come Meloni e, sudando copiosamente, imprecano contro la matita copiativa: “Ma ‘sta benedetta donna non ce l’avrà un soprannome?”. Così ha pensato di agevolarli, precisando in lista che lei è “Giorgia Meloni detta Giorgia” (anche se pretende di essere chiamata “Signor Presidente del Consiglio”, appellativo più confacente a un Giorgio). È un’astuta forma di camuffamento che adotta fin dall’infanzia, quando giocava a nascondino e un amichetto la scopriva: “Abbello, io nun so’ Giorgia: io so’ Giorgia”. Tecnica utilissima anche oggi ogni volta che fa l’opposto di ciò che aveva promesso, cioè sempre: “Abbelli, quella era Giorgia, io so’ Giorgia”.

La rivelazione ha subito colto di sorpresa i suoi fan, convinti che, chiamandosi Giorgia, la Meloni fosse detta Ludmilla, Genoveffa, Clarabella o altri nomignoli tipici delle Giorge. Ma li ha anche rassicurati: chi, non ritenendosi in grado di scrivere Giorgia, già meditava di astenersi, correrà a pie’ fermo alle urne sapendo di poter scrivere comodamente Giorgia. Ora si spera che nessun’altra lista presenti candidati o candidate detti o dette Giorgia, sennò è un casino. Ma sarà divertente vedere la faccia degli elettori quando scopriranno che Giorgia detta Giorgia s’è fatta eleggere al Parlamento europeo per non metterci piede, sennò dovrebbe rinunciare a fare la premier e la deputata. Cioè: han fatto una fatica bestia a scrivere Giorgia sulla scheda senza sapere che stavano eleggendo qualcun altro (sicuramente maschio) che nessuno conosce, ma di certo non si chiama Giorgia e non è neppure detto Giorgia. Per evitare di sputtanarsi, infatti, nessun altro premier dell’Ue si candida al Parlamento europeo. Come nessun deputato nazionale negli altri 26 Paesi. Qui invece lo fanno Giorgia detta Giorgia, Elly Schlein, Antonio Tajani (quello che “sarebbe un errore candidare i leader all’Ue”) e Carlo Calenda (quello che “chi si candida sapendo di non andare in Ue svilisce e prende in giro gli elettori”). Quindi, a parte Conte, Salvini, Bonelli e Fratoianni (Renzi si vedrà), nessuno sarà titolato a soprannominare pagliaccia Giorgia detta Giorgia e nessun giornalone segnalerà la truffa, visto che tifano tutti per i truffatori. Anzi, corre voce che Calenda stia pensando di precisare sulla scheda “Carlo detto Giorgia”: magari qualcuno per sbaglio lo vota.

 

Sorgente ↣ : Giorgia detta Giorgia – Il Fatto Quotidiano