L’Aeroporco

L’editoriale di Marco Travaglio

L’Aeroporco

Non bastava il biglietto da visita che l’Italia esibisce ai turisti stranieri (noi ormai ci abbiamo fatto il callo) nelle stazioni ferroviarie ridotte a porcilaie da favelas e ammassi di carne umana in file disumane sotto la canicola o i nubifragi a caccia di un taxi che non c’è. Infatti il cosiddetto ministro dei Trasporti Salvini ha annunciato “con orgoglio e commozione” nella location più consona, la masseria di Vespa, l’ultima ideona per migliorare la nostra immagine nel mondo: l’aeroporto di Malpensa, cioè lo sterminato e inutile obitorio in marmo verde eretto in quel di Lonate Pozzolo al tramonto della Prima Repubblica a maggior gloria di Tangentopoli e Sprecopoli, sarà intitolato a Silvio Berlusconi. Cioè al primo e finora unico premier del mondo libero espulso dal Parlamento per una condanna definitiva per frode fiscale, oltre a nove prescrizioni e a una sentenza che immortala i suoi finanziamenti a Cosa Nostra fino al 1992, l’anno delle stragi. Ora Dagospia parla addirittura di “aeroporco”. E il Pd protesta vibratamente per la “scelta inopportuna” di B., “uomo divisivo con una storia molto ambigua”. E in effetti, quando pensi a B., il primo aggettivo che ti viene in mente è “divisivo” e il secondo è “ambiguo” (chiedendo scusa alle signore). Grande è invece l’esultanza del presidente della Lombardia, Attilio Fontana, per il “giusto tributo”: scelta lessicale quantomai appropriata per un frodatore fiscale. Si era anche pensato di omaggiare B. dedicandogli una strada di Milano o di Arcore, ma “Via Berlusconi” sarebbe suonato equivoco. L’ideale era la tangenziale, ma si è temuto di discriminare gli altri tangentari.

La nuova toponomastica aeroportuale consentirà agli stranieri di fare scalo al “Berlusconi” e proseguire, volendo, verso Palermo atterrando al “Falcone e Borsellino”: prima il finanziatore degli stragisti, poi le loro vittime. Altri suggestivi accostamenti potranno sorgere fra il Berlusconi e il Sandro Pertini, o il Cristoforo Colombo, o il Marco Polo, o il Guglielmo Marconi, o il Galilieo Galilei. Senza dimenticare lo scalo più importante di Parigi che i francesi, insensibili agli avanzi di galera, intestarono inspiegabilmente a Charles de Gaulle anziché ad Arsène Lupin. Ora restano da battezzare altri aeroporti. Linate, in omaggio alla par condicio, sarebbe perfetto per Marcello Dell’Utri, l’ex senatore e braccio destro di B. pregiudicato per concorso esterno in mafia, che fra l’altro proprio di lì decollò il 24 marzo 2014 per sfuggire all’arresto volando a Parigi e poi a Beirut, luogo prescelto per la sua latitanza. Lo scalo di Ciampino potrebbe andare a Francesco Lollobrigida per motivi più ferroviari che aeronautici. Pratica di Mare invece spetta di diritto a Chico Forti e a Giorgia Meloni, ex aequo.

 

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Orbi et Orbán

L’editoriale di Marco Travaglio

Orbi et Orbán

Di Victor Orbán sappiamo tutto e non dimentichiamo nulla: leader dei conservatori nazionalisti ungheresi; premier nel 1998-2002 e poi di nuovo dal 2010; tradizionalista, euroscettico, filorusso, filocinese, amico di B. e di Netanyahu; furbissimo e pragmatico (ha appena votato il socialista Costa a capo del Consiglio Ue); nel mirino di Bruxelles per le battaglie contro i diritti civili e i migranti, fiero di aver trasformato il suo Paese in una “democrazia illiberale” (parole sue), ragion per cui il Ppe sospese nel 2019 il suo partito Fidesz che poi ne uscì nel 2021 per unirsi alle destre estreme. Ma proprio chi di lui sa tutto e non dimentica nulla dovrebbe domandarsi come sia possibile che, dopo 28 mesi di guerra, abbiamo dovuto attendere il semestre ungherese di presidenza della Ue per vedere un gesto normale da un leader europeo: un viaggio a Kiev e a Mosca per parlare di negoziati.

Eppure tutti i big dell’Ue e dei 27 Paesi membri assicurano che l’obiettivo delle vagonate di armi e miliardi spedite a Kiev è il negoziato di pace, anche se comicamente aggiungono “giusta” (come se ne fosse mai esistita una nella storia). Ma, anche se credessero alle fesserie che dicono, dunque all’imminente vittoria di Kiev, come pensano di arrivare alla famosa pace giusta parlando solo con Zelensky e non con Putin? Parlare non vuol dire subire o arrendersi: ma domandare ai due quali condizioni pongono per sedersi al tavolo, scartare quelle inaccettabili e discutere quelle ragionevoli alla luce del campo di battaglia. Che poi è il vero tavolo di ogni negoziato. Dopo quasi due anni e mezzo di bugie (stiamo vincendo noi), capricci infantili (vogliamo tutto) e centinaia di migliaia di morti, tutti sanno che la guerra può finire solo in tre modi: l’Ucraina che sbaraglia la Russia (ipotesi impossibile, oltreché pericolosa: prima di alzare bandiera bianca, Putin ha un bel po’ di testate nucleari pronte all’uso); la Russia che prende tutta l’Ucraina (ipotesi improbabile: Mosca non vuole e comunque non ha i mezzi per farlo); un compromesso a metà strada (unico esito ragionevole, resta solo da capire dopo quanti altri morti). Certo, non sarà Orbán ad avviare il negoziato: appena saputo dell’incontro con Putin, l’euroimbecille di turno Michel l’ha scomunicato: “Non a nome dell’Europa”. Si parla e si tratta con Hamas, Iran, al-Sisi, MbS, talebani e le peggiori canaglie del pianeta, ma con Putin no. Con Putin parlano il Papa, Xi Jinping, Erdogan, Israele, il Sud del mondo, gli stessi Usa, ma l’Ue no. La pace non deve solo essere giusta, ma anche piovere dal cielo. Verrebbe voglia di rammentare agli eurodementi che “non si arriva alla pace stando seduti in poltrona a Bruxelles”. Ma purtroppo anche quello l’ha già detto Orbán.

 

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Tutta suo padre

L’editoriale di Marco Travaglio

Tutta suo padre

Marina di qua, Marina di là. Da quando la primogenita di B. ha detto al Corriere di essere “più in sintonia con la sinistra di buonsenso su diritti civili, aborto, fine vita, diritti Lgbtq” che col governo, perché “ognuno dev’essere libero di scegliere” e l’illustre genitore aveva speso l’intera vita per la “libertà”, è tutto un coro di gridolini giubilanti dai vedovi inconsolabili dell’inciucio: evviva, “torna la destra liberale di B.”, “si rafforza la corrente liberal di FI”! Insomma Marina è tutta suo padre e ora speriamo che o lei o Pier Silvio ci salvino dall’oscurantista meloniano. Ora, fermo restando che le colpe dei padri non ricadono sulle figlie, quella del B. liberale o financo liberal, alfiere dei diritti e delle libertà (a parte quella di delinquere) è una solennissima minchiata. I suoi tre governi furono molto più diritticidi dell’attuale: lui faceva i suoi porci comodi, poi varava leggi per levare agli altri cittadini ogni diritto e libertà civile. Come ha ricordato lunedì Fabrizio d’Esposito, ancora nel 2021 vantò le “radici cristiane di FI” (in realtà pagano-clericali) su aborto e fine-vita: “La vita di ogni essere umano è sacra dal concepimento fino alla morte biologica”.

Nel 2004, per assecondare la Cei di Ruini, varò la legge 40 contro la procreazione assistita e la ricerca e nel 2005 schierò il centrodestra coi vescovi per l’astensione al referendum abrogativo, che infatti mancò il quorum. Nel 2007 il noto massone divorziato, appena fotografato a Villa Certosa con un plotone di squinzie sulle ginocchia, sfilò al Family Day dei catto-oltranzisti contro la timidissima legge di Prodi sulle coppie di fatto e per la “famiglia tradizionale” (tipo la sua): “Noi cattolici dobbiamo reagire. C’è un rigurgito di laicismo che vuole impedire alla Chiesa di parlare”. Nel 2009 i medici stavano finalmente per sospendere i trattamenti meccanici che tenevano artificialmente in vita Eluana Englaro dopo 17 anni di coma vegetativo. Ma lui, per compiacere i pro life, convocò un Consiglio dei ministri straordinario per varare un decreto che imponeva il ripristino dell’alimentazione e idratazione forzate, cancellando la Cassazione e la Consulta. Napolitano, una volta tanto, annunciò che non avrebbe firmato e B. dovette ripiegare su un ddl. Ma accusò il Colle di appartenere alla “cultura della morte e dello statalismo” e Beppino Englaro di voler “togliersi di mezzo una scomodità: dopotutto la ragazza è assistita senza aggravio di spese per il padre. E mi dicono che è lì viva con un bell’aspetto e delle funzioni come il ciclo mestruale attivo: potrebbe ancora avere dei bambini”. Nel 2010 sistemò pure la comunità Lgbtq: “Meglio essere appassionato di belle ragazze che gay”. Dal magico mondo del liberalismo berlusconiano è tutto, linea allo studio.

 

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Il sintomo e il virus

L’editoriale di Marco Travaglio

Il sintomo e il virus

Parlare di alleanze per le Politiche del 2027, con questo caldo e queste piogge, non è il massimo. Ma, visti i messaggi, lettere e commenti giunti dopo il mio pezzo di ieri, forse è il caso di riprovarci. Il guaio, temo, è il malvezzo di analizzare i risultati elettorali guardando sempre agli eletti e mai agli elettori. Che in democrazia, come i clienti al ristorante, hanno sempre ragione. Non nel senso che il loro voto sia sempre giusto, anzi: infatti poi quasi sempre lo cambiano. Ma nel senso che sono gli unici titolati a decidere. E chi cerca consensi duraturi deve guadagnarseli armandosi di umiltà e provando a mettersi nei loro panni. Non per applaudirli o per fischiarli, ma per capirli. Perché mezzo milione di italiani esce di casa di domenica per recarsi al seggio e votare Vannacci? Perché, con i disastri combinati fin qui, le destre non calano, anzi salgono? Perché più i grandi media demonizzano i “populisti” e più gli elettori li premiano? Perché dopo Obama arrivò Trump e dopo Biden può tornare Trump? Perché, dopo sette anni di Macron, vince la Le Pen, che ci provava da 13 anni e non ha neppure l’aura della novità? Possibile che gli elettori del “mondo libero”, bravi e saggi finché votavano “bene”, siano diventati tutti fascisti?

Mentre i fini analisti giocano a Risiko spostando un carrarmatino un po’ più al centro e un plotoncino da destra a sinistra o viceversa, la gente normale pensa a tutt’altro. E se ne frega dei ferrivecchi di centro, destra e sinistra che – intendiamoci – esistono nel cuore e nella mente di tante brave persone, ma sono ormai usurati e sputtanati dall’abuso che i partiti ne fanno da troppo tempo. Le destre illiberali e cialtronesche italiane, francesi, tedesche, spagnole, americane, distanti mille miglia da quelle liberaldemocratiche del vecchio conservatorismo, non sono il virus: sono il sintomo dei tradimenti e dei fallimenti delle socialdemocrazie che, travestite da “riformismo”, hanno abbandonato centinaia di milioni di esclusi, invisibili, nuovi poveri, ceti medi impoveriti da globalizzazioni, automazioni, diseguaglianze, intelligenze artificiali, guerre e sanzioni a senso unico, e spaventati da tutto ciò che sentono più grande di loro e vivono come ostile: immigrazione incontrollata, tecnocrazie globaliste, austerità selettive, establishment elitari e castali. E chi dovrebbe prendersi cura delle loro paure – la cosiddetta sinistra – li criminalizza come zotici populisti. Parla di astruserie, tipo cambiare nome alla Festa dell’Unità in Festa dell’Unit* per non offendere le “a” accentate. E, invece di inventare idee e linguaggi popolari per comunicare con loro con un populismo sano e giusto, medita un bel fronte popolare antifa (anzi antif*) per trattarli da fascisti. Quando arriva l’ambulanza?

 

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La foto del malaugurio

L'editoriale di Marco Travaglio La foto del malaugurio

L’editoriale di Marco Travaglio

La foto del malaugurio

Fratoianni, Schlein, Bonelli, Magi, Acerbo e Conte hanno accolto l’invito di Pagliarulo a parlare di Costituzione alla festa bolognese dell’Anpi. Dunque la foto di gruppo non ritrae la prossima alleanza anti-destre. Ma così l’ha presentata la Schlein, invocando un Fronte Popolare antifascista alla francese da Rifondazione a quel che resta di Azione e Iv (assenti alla Bolognina per motivi di salute) per vincere le Politiche. E subito qualcuno l’ha accostata ad altri scatti del malaugurio: la foto di Vasto, alla festa Idv 2011, fra Bersani, Di Pietro e Vendola, a due anni dal primo boom 5Stelle; e quella di Narni fra Conte, Di Maio, Zingaretti e Speranza, nella campagna del 2019 in Umbria poi vinta dalle destre. Ma a Vasto e a Narni c’erano leader di partiti compatibili, che quando finalmente governarono diedero buona prova nel Conte-2. A Bologna ce n’erano sei accomunati solo dal non governare. Un po’ come quelli del Prodi-2 che unì (si fa per dire) nell’ordine: Rifondazione, Comunisti italiani, Ds, Verdi, Margherita, Indipendenti dell’Ulivo, Idv, Rosa nel Pugno, Socialisti, Italia di Mezzo di Follini, Democratici Cristiani Uniti di tal Mongiello, Lega per l’Autonomia di tali Brivio e De Paoli, Democratici Meridionali di Loiero, Italiani in Sudamerica di tal Pallaro, Consumatori (due), Udeur di Mastella. Infatti durò 23 mesi. Anche i Sei della Bolognina, se dovessero governare insieme, non andrebbero d’accordo quasi su nulla: ciascuno ha (quando ce l’ha) la sua politica estera, economica, fiscale, giudiziaria, istituzionale.

Per fortuna nessuno ha chiesto al radicale Magi di parlare di Israele, Ucraina, America o Francia, sennò sarebbe scoppiata la rissa con Conte, Acerbo e Fratoianni, mentre Schlein avrebbe chiesto di andare al bagno. Idem su qualunque altro tema a scelta. La folla invocava “Unità!” e s’è entusiasmata quando i leader, a parte Conte già fuggito, cantavano Bella ciao. E va capita: ne ha viste troppe, nel lungo film del tafazzismo della “sinistra”. Ma l’antifascismo non è un programma di governo: in Francia potrà forse dare un po’ di filo da torcere alla Le Pen, ma non far governare macronisti e frontisti, che dissentono su tutto. Figurarsi in Italia, dove il peggio – berlusconismo, renzismo e salvinismo – è già passato e il melonismo è già in fase calante. Opporsi a questo sgoverno è molto più facile che proporre un’alternativa. Guai se l’intera opposizione si ingabbiasse nella camicia di forza della “sinistra”, lasciando il “populismo” alle destre: serve anche quello dei 5Stelle e di una sinistra vera, che parlino oltre le Ztl e convincano milioni d’“invisibili” a votare. Basta foto-ammucchiate: ogni partito vada a caccia degli elettori più simili al suo target. I leader, fino alle Politiche, meno si fanno vedere insieme e meglio è.

 

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La foto del malaugurio

 

Fratoianni, Schlein, Bonelli, Magi, Acerbo e Conte hanno accolto l’invito di Pagliarulo a parlare di Costituzione alla festa bolognese dell’Anpi. Dunque la foto di gruppo non ritrae la prossima alleanza anti-destre. Ma così l’ha presentata la Schlein, invocando un Fronte Popolare antifascista alla francese da Rifondazione a quel che resta di Azione e Iv (assenti alla Bolognina per motivi di salute) per vincere le Politiche. E subito qualcuno l’ha accostata ad altri scatti del malaugurio: la foto di Vasto, alla festa Idv 2011, fra Bersani, Di Pietro e Vendola, a due anni dal primo boom 5Stelle; e quella di Narni fra Conte, Di Maio, Zingaretti e Speranza, nella campagna del 2019 in Umbria poi vinta dalle destre. Ma a Vasto e a Narni c’erano leader di partiti compatibili, che quando finalmente governarono diedero buona prova nel Conte-2. A Bologna ce n’erano sei accomunati solo dal non governare. Un po’ come quelli del Prodi-2 che unì (si fa per dire) nell’ordine: Rifondazione, Comunisti italiani, Ds, Verdi, Margherita, Indipendenti dell’Ulivo, Idv, Rosa nel Pugno, Socialisti, Italia di Mezzo di Follini, Democratici Cristiani Uniti di tal Mongiello, Lega per l’Autonomia di tali Brivio e De Paoli, Democratici Meridionali di Loiero, Italiani in Sudamerica di tal Pallaro, Consumatori (due), Udeur di Mastella. Infatti durò 23 mesi. Anche i Sei della Bolognina, se dovessero governare insieme, non andrebbero d’accordo quasi su nulla: ciascuno ha (quando ce l’ha) la sua politica estera, economica, fiscale, giudiziaria, istituzionale.

 

Per fortuna nessuno ha chiesto al radicale Magi di parlare di Israele, Ucraina, America o Francia, sennò sarebbe scoppiata la rissa con Conte, Acerbo e Fratoianni, mentre Schlein avrebbe chiesto di andare al bagno. Idem su qualunque altro tema a scelta. La folla invocava “Unità!” e s’è entusiasmata quando i leader, a parte Conte già fuggito, cantavano Bella ciao. E va capita: ne ha viste troppe, nel lungo film del tafazzismo della “sinistra”. Ma l’antifascismo non è un programma di governo: in Francia potrà forse dare un po’ di filo da torcere alla Le Pen, ma non far governare macronisti e frontisti, che dissentono su tutto. Figurarsi in Italia, dove il peggio – berlusconismo, renzismo e salvinismo – è già passato e il melonismo è già in fase calante. Opporsi a questo sgoverno è molto più facile che proporre un’alternativa. Guai se l’intera opposizione si ingabbiasse nella camicia di forza della “sinistra”, lasciando il “populismo” alle destre: serve anche quello dei 5Stelle e di una sinistra vera, che parlino oltre le Ztl e convincano milioni d’“invisibili” a votare. Basta foto-ammucchiate: ogni partito vada a caccia degli elettori più simili al suo target. I leader, fino alle Politiche, meno si fanno vedere insieme e meglio è.

 

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L’école des imbéciles

L’editoriale di Marco Travaglio

L’école des imbéciles

In un’intervista del 2018 ad Antonello Caporale, Jean-Paul Fitoussi definì Macron “un imbecille”. Ora lo dicono pure i macroniani più ferventi. Ma soprattutto l’80% degli elettori francesi, che non sanno più come farglielo capire. Non che l’abbiano mai amato, anzi. Nel 2017, al primo turno, lo votò appena il 24% (il 18 degli aventi diritto), e fu solo perché aveva contro Marine Le Pen se vinse il ballottaggio col 66. Stessa scena nel 2022: 27,8 al primo turno e 58,5 al ballottaggio grazie al solito effetto Le Pen. Macron è sempre stato un Micron che si crede Napoleone. Infatti, precipitato al 14% alle Europee dopo sette anni di malgoverno, s’è illuso che strillare al babau fascista bastasse a costringere i francesi a turarsi il naso per la terza volta. E gli è andata male: sia perché, a furia di svolte moderate e al confronto di Zemmour, la Le Pen sembra Forlani; sia perché la sinistra che Macron si era illuso di aver debellato si è unita ed è arrivata seconda, relegandolo a un umiliante terzo posto. Ora il galletto tenta la desistenza con le sinistre che finora tacciava di “antisemitismo”: un’ammucchiata da ballottaggio per scippare a Le Pen&Ciotti la maggioranza assoluta. Ma non per governare: l’Union ben poco Sacrée fra sinistre e Renaissance macroniana non avrebbe i numeri né un solo punto in comune. Non ne hanno neppure France Insoumise del pacifista e “populista” Mélenchon e i socialisti dell’atlantista e “riformista” Gluksmann, a parte l’intenzione di smantellare tutto ciò che ha fatto Macron: il primo è l’acqua, il secondo l’olio, il terzo il gas. Paradossalmente, tralasciando le vecchie etichette ideologiche destra- sinistra/fascismo-antifascismo, le critiche di Le Pen e Mélenchon alle politiche antisociali e belliciste del fighetto dell’Eliseo rendono la destra e la sinistra molto meno distanti fra loro che da lui.

L’ex socialista al caviale Macron, come Blair, i due Clinton, Biden e la loro caricatura italiana Renzi, è l’ultimo epigono di una falsa sinistra “riformista” che a furia di guardare al centro ha desertificato il suo campo e spalancato la strada alle destre. Il cartello anti-Le Pen è la versione francese delle nostre ammucchiate di Monti, Letta e Draghi che dovevano salvarci dai “populismi” e invece li hanno ingrassati. Se in Italia le destre sono esplose in ritardo è grazie al “populismo” pulito, sociale, progressista e democratico dei 5Stelle. Cioè l’unica vera bestia nera dei sedicenti “riformisti” e “liberali”, che l’hanno massacrata anziché studiarla e imitarla, col risultato di spianare la strada prima a Salvini e poi alla Meloni. Quando Grillo avvertiva dal 2012 che “senza i 5S avremmo già Le Pen e Alba Dorata”, gli imbecilli italioti sghignazzavano. Ora, compiuta la missione, hanno smesso, ma fanno scuola in Francia.

 

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Ma Draghi e Letta?

L’editoriale di Marco Travaglio

Ma Draghi e Letta?

Ogni mattina compulsiamo spasmodicamente ogni articolo sui negoziati europei a caccia di un indizio, una traccia, un segnale, una frase, un monosillabo, un cenno, un ammicco, un qualcosa purchessia che ci rassicuri sull’esito più naturale per i vertici dell’Ue: la carta Draghi e l’opzione Letta (nel senso di Enrico). A furia di leggerne sui giornaloni, ci abbiamo fatto la bocca. E gli elettori sono stati chiarissimi. Un sol coro dall’Italia al Baltico, dal Nord Europa alla Penisola iberica ai Balcani: “Mai più senza Draghi e Letta!”.

 

Chi volete che avessero in mente gli italiani che hanno premiato la destra, i francesi che han votato Le Pen, i tedeschi arrapati dai popolari e dai neonazi, gli ungheresi filo-Orbán e gli altri popoli devoti ai sovranisti contro i tecnocrati di Bruxelles? Draghi e Letta. Anche Renzi, in tandem con la Bonino, era stato chiarissimo: “Voglio Draghi alla guida dell’Ue”, “Vorrei la maggioranza Mario”. E pure la Boschi: “Draghi al posto di Ursula”. E Calenda, perentorio: “Draghi presidente Ue? Io ci credo”. Il Corriere, sempre informatissimo, non aveva dubbi: “Draghi, un piano per l’Europa”, “Bene la svolta di Draghi per l’Ue”, “Opzione Draghi”, “La sveglia di Draghi”, “Sondaggio nella Ue, Draghi batte Ursula”. Anche in Scandinavia, per dire, il culto mariano faceva impazzire tutti. Il Tempo: “Tutti sognano Draghi”. Repubblica non stava più nella pelle: “Ue, si tratta su Draghi”. “Road map Ue, Draghi da von der Leyen”, “Il ruolo di Michel potrebbe liberare la casella per Draghi”, “L’Europa secondo Draghi”, “La carta Draghi”, “Porta aperta di Meloni a Draghi”, “A chi può giovare il fattore Draghi”, “Per Giorgetti, Draghi è la scelta migliore per l’Ue”, “Palazzo Chigi studia se indicare l’ex Bce”, “La lezione di Draghi”. Era fatta. Lui faceva sapere di non essere interessato, ma la Stampa mica ci cascava: “Fattore Draghi”, “Draghi vede Macron e i commissari Ue. Le tentazioni europee sull’ex premier”, “Draghi scende in campo”, “La scossa di Super Mario all’Ue bella addormentata”, “Torna l’ipotesi Draghi al Consiglio Ue”, “La scossa di Draghi”, “Il manifesto di Draghi”. Il Sole 24 ore aveva notizie di prima mano: “Draghi come sostituto di Michel è la soluzione super partes per rompere gli schemi”. Per il prestigioso Libero di Sechi l’opzione Draghi era una pura formalità: “SuperMario prenota una poltrona al Consiglio Ue”, “Il piano Draghi e il ritorno della storia”, anche perché, non bastando Renzi, Boschi, Bonino e Calenda, anche “Gentiloni lo sostiene”, e sono sempre soddisfazioni. L’autorevole Giornale di Sallusti tagliava la testa al toro: “Torna Draghi e fa un pensierino all’Europa”, “Draghi, carte coperte. Ma nessuno crede che farà solo il nonno”.

E ancora: “Lo scenario Draghi alla Commissione Ue agita il centrodestra”, “Draghi riscende in campo”, “Il programma di Super Mario”, “I contatti telefonici tra Meloni e l’ex Bce”, “Si rafforza l’ipotesi Draghi”, “Riportiamo Draghi in campo”. “Draghi, fuoriclasse che ci serve (e che fa gola pure all’America)”. Ecco, quei golosoni degli americani volevano portarcelo via, ma nulla potevano contro gli spingitori italiani, inclusi i portafortuna del Foglio: “Un caffè segreto tra Draghi e Ursula offre suggestioni sul dopo 9 giugno”, “Sogna il Quirinale ma è in corsa per Commissione e Consiglio Ue. La moglie Serenella: ‘La politica lo teme, non lo ama’”, “Vota Antonio? No: vota Mario! La nuova agenda Draghi ha messo in mutande i populismi di destra e sinistra”. Non s’era ancora trovata la prima Agenda Draghi e zac! Il rag. Cerasa già lanciava la seconda, in pelle umana. Altro amuleto, l’Unità di Samsonite: “Riappare Draghi: vuole prendersi l’Europa”, “Timone Ue a Draghi: FdI frena, Pd ci sta, Centro esulta”. Il Riformatorio vedeva “Draghi a Bruxelles senza l’appoggio dell’Italia”, ma con quello dei marziani. E il Messaggero annunciava un’irresistibile “raccolta firme di Ichino e Martelli: ‘Sia Draghi a guidare Bruxelles’”. Ichino e Martelli, mica pizza e fichi. Mancava solo Fassino.

 

E Letta? Anche lui, zitto zitto, inesorabilmente avanzava. Soprattutto sulla Stampa, che ci teneva tanto: “Ipotesi Letta al Consiglio europeo. La premier non metterebbe il veto”. “La carta Letta al Consiglio Ue. Il report che ha convinto Meloni”. Ma anche sul Corriere: “L’opzione Letta al Consiglio Ue e l’antico rapporto con Meloni: ‘come Sandra e Raimondo’, confronto periodico civile e rispetto reciproco”. Il nipote di suo zio aveva addirittura trasformato in un libro, appassionante come tutto ciò che fa e dice, il suo rapporto sull’economia europea, dal frizzante titolo Molto più di un mercato. Viaggio nella nuova Europa, anticipato a edicole unificate alla vigilia delle trattative Ue da CorriereRepubblicaSole e Messaggero. Poi i Ventisette si son visti davanti al caminetto e nella cena finale. E proditoriamente nessuno, ma proprio nessuno, neppure il premier di Malta, ha nominato né Draghi né Letta. Un attacco collettivo di amnesia? O di pazzia? O di masochismo, viste le rivolte popolari che esploderebbero fra tutti i popoli orbati di cotali leccornie? Impossibile. Dev’essere un astutissimo bluff del Consiglio Ue, che se n’è uscito con la terna Von der Leyen-Costa-Kallas per tenere coperti i due assi nella manica e tirarli fuori al momento opportuno. L’alternativa è che in Europa nessuno legga i giornaloni italiani né dia retta a Renzi, Boschi, Bonino e Calenda: ma questa è pura fantascienza.

 

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Il re è rinco

L’editoriale di Marco Travaglio

Il re è rinco

 

A un certo punto del raccapricciante faccia a faccia dell’altra notte, si è avuta la netta sensazione che, se Trump avesse chiesto a bruciapelo a Biden “come ti chiami?”, il Capo del Mondo Libero non avrebbe saputo rispondere. Ma, per tutti i 90 minuti del derby fra il mascalzone esagitato e il mascalzone rintronato, le domande che galleggiavano sul capoccione phonato del primo e su quello incollato del secondo erano altre. Come ha potuto la Culla della Democrazia ridursi a una scelta tanto imbarazzante? Chi sta guidando davvero gli Usa e l’Occidente verso la terza guerra mondiale? Per quanto tempo ancora i dem americani e i commentatori internazionali al seguito pensavano di poter negare ciò che il mondo intero vede a occhio nudo da anni sullo stato pietoso in cui versa il “commander in chief”? Solo pochi giorni fa Repubblica spacciava una doverosa inchiesta del WSJ sulla salute mentale di Biden per un “attacco dei repubblicani”. E Domani spiegava che il presidente Usa sta una favola, ma i “trucchi” e le “fake news a basso costo” della “campagna di Trump vogliono farlo apparire confuso, lavorando su inquadrature e tagli per trasmettere un’idea falsata”. Certo, come no.

 

 

Poi l’altra sera, come nella fiaba del re nudo ma senza bisogno del bambino, tutto il pianeta ha visto Rimbambiden al naturale: saltava di palo in frasca, biascicava frasi incomprensibili (poveri interpreti), infilava il prezzo dell’insulina nella risposta sull’Ucraina e i chip coreani in quella sull’età, vantava come un trionfo l’invereconda fuga da Kabul, ripeteva che Putin vuole invadere la Polonia e poi l’intera Europa, cose così. E non di fronte a un campione di dialettica, ma a un odioso e rozzo bullaccio che ficca i migranti e i veterani dappertutto, spara (anche lui) cifre a casaccio e mente (anche lui) a ogni respiro. Al confronto, il peggior politico italiano pare Churchill. Biden s’è distrutto da solo, con scene pietose che ricordano il tramonto dell’altro impero, quello sovietico, plasticamente incarnato dal corpo mummificato e surgelato di Breznev issato sulla balconata del Cremlino per mostrarsi ancora vivo con meccanici scatti del braccio. Eppure, fino all’altroieri, chi osava dire che l’Occidente è in mano a un rinco era un nemico della democrazia e un servo di Trump, oltreché di Putin. E i nemici delle “post-verità” trumpiane accreditavano quella bideniana per “non fare il gioco” di The Donald, senza accorgersi di lavorare proprio per lui. Perché, a quattro mesi dal voto, è difficile cambiare cavallo in corsa. E perché la reputazione della “democrazia” americana, diretta per finta da Rimbambiden e per davvero da una cricca di fantasmi mai eletti che gli fan dire e fare ciò che vogliono, è irrimediabilmente compromessa.

 

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Ex voto

L’editoriale di Marco Travaglio

Ex voto

L’ideona anti-astensionismo di La Russa – abolire i ballottaggi alle Comunali quando un candidato supera il 40% – contiene una notizia bella e due brutte. La bella: la seconda carica dello Stato ha scoperto l’astensionismo. Le brutte: lo scopre solo ora che le destre han perso quasi tutti i ballottaggi col 52,3% di astenuti, ma non ci aveva fatto caso alle Europee col 50,3% di astenuti; il ballottaggio non c’entra nulla con l’astensionismo e abolirlo non farebbe aumentare i votanti al primo turno, che anzi diventerebbe un ballottaggio anticipato perché costringerebbe partiti molto diversi a coalizzarsi (e dunque a snaturarsi) per raggiungere il 40%. Nel primo round gli elettori sono più numerosi perché possono scegliere, fra molti candidati, il proprio o il più vicino; nel secondo, il derby fra i due più votati esclude chi proprio non ce la fa a votare il meno lontano, anche perché nel finto bipolarismo italiota non riesce a trovarlo. Se davvero La Russa, Meloni&C. volessero combattere l’astensionismo, non dovrebbero cambiare le leggi (a parte quella elettorale, e non per aumentare il premio di maggioranza che scoraggia gli elettori, bensì per tornare al proporzionale con preferenza unica), ma i comportamenti. Evitando di tradire le promesse agli elettori e quindi di prendere impegni impossibili da mantenere. Blocco navale, anzi raddoppio degli sbarchi. Tassa sugli extraprofitti, anzi no. Basta accise, anzi no. Basta Fornero, anzi no. Basta amichettismi, anzi pure cognatismi e sorellismi. Basta austerità in Ue, anzi no. Basta trivelle, anzi no. Presidenzialismo, anzi premierato. Abolire le Regioni, anzi Autonomia. Mai ostacoli ai pm, anzi sì. No alla vendita di Ita ai tedeschi, anzi sì. No alla privatizzazione di Poste, anzi sì. Mai in Ue coi socialisti, anzi sì a von der Leyen coi socialisti. È finita la pacchia per l’Europa, anzi è finita per noi.

Ormai gli elettori votano per la novità del momento e non c’è nulla di più frustrante di un leader che promette di cambiare le cose e poi, giunto al potere, lascia che siano le cose a cambiare lui. È accaduto alle due meteore del decennio, Matteo 1 e Matteo 2, precipitate dagli altari alla polvere in un paio d’anni. E rischia di riaccadere a Giorgia ed Elly, le due novità delle Politiche e delle Europee. La prima si snatura da due anni per farsi accettare dall’establishment nazionale e internazionale, ma sta scoprendo in queste ore che lorsignori vogliono la resa, se non l’harakiri. La seconda fu eletta segretaria del Pd per cacciarne i cacicchi e i capibastone, ma ora vince proprio grazie a loro e, passata la moda, gli elettori si domanderanno dove stia il “nuovo Pd”. E che senso abbia votare se l’unico cambiamento possibile è quello dei leader che promettevano il cambiamento.

 

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