Elly detta Silvio

L’editoriale di Marco Travaglio

Elly detta Silvio

Parlare di rispetto delle regole in un Paese dove la premier accoglie all’aeroporto un assassino condannato all’ergastolo come un eroe non è solo assurdo: è anche inutile. Ma adoriamo le missioni impossibili. E ancor più i paradossi. Tipo quello del Pd che, dopo aver voluto nel 2000 la legge sulla par condicio per garantire parità di accesso in tv a chi si candida alle elezioni, ora vuole “riformarla” perché l’Agcom che ne sanziona le violazioni ha impedito a Meloni&Schlein di violarla. O tipo quello della Schlein che tuona un giorno sì e l’altro pure contro TeleMeloni (la Rai spartita tuttora fifty fifty fra destre e Pd), organizza sit-in indignati e poi si apparecchia un tête-à-tête con la Meloni a Porta a Porta, cuore di TeleMeloni. Ma i paradossi sono come le ciliegie: uno tira l’altro. Infatti – informa il Messaggero– il “quartier generale del Nazareno” ha pronta un’altra “mossa per aggirare la scure della par condicio (sic, ndr) e provare a salvare in extremis il duello Meloni-Schlein. Come? Spostando l’arena dalla tv a un territorio neutro, immune dai paletti dell’Agcom e dai veti dei leader esclusi: le pagine Instagram e Facebook delle due comandanti in capo”, dette anche “le due timoniere”, per un bel “duello 3.0” (cioè un gioco delle tre carte). Ma, paradosso nel paradosso, a rifiutare quel trucchetto da magliari è proprio la Meloni, cioè l’erede del berlusconismo che s’è sempre opposto alla par condicio.

Non potendola aggirare con la truffa telematica, non resta che cambiare la legge. Lo dice a Repubblica Stefano Graziano, deputato dem in Vigilanza: “Serve un lavoro di aggiornamento della par condicio, una manutenzione per rendere le regole più smart”. Quali regole smart? “Un po’ meno veti e un po’ più servizi per i cittadini”. Quali servizi per i cittadini? “Il dibattito fra la presidente del Consiglio e la leader del principale partito di opposizione”. Cioè un servizietto per far credere ai gonzi che le elezioni non siano una corsa fra tante liste alla pari in cui vince chi decidono gli elettori, ma una partita a due tra FdI e Pd (almeno finché il Pd sarà secondo nei sondaggi). Lo spiega la stessa Repubblica (che, altro spassosissimo paradosso, è spalmata da giorni sulla linea Vespa), testuale: non si può “consentire al capo di un movimento del 3% di impedire a chi guida i primi due partiti di confrontarsi in diretta”. Par di sentire B. che nel 2013 tuonò scandalizzato: “Con la par condicio in tv i piccoli partiti avranno lo stesso spazio di quelli grandi!”. C’è voluto del tempo, ma ora ci è arrivato anche il Pd. Quindi chi nei sondaggi ha il 3% (come FdI sei anni fa) non potrà mai salire, perché la riforma smart voluta dai due primi partiti daranno visibilità soltanto a loro. A Giorgia detta Giorgia e a Elly detta Silvio.

 

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Par linguicio

L’editoriale di Marco Travaglio

Par linguicio

L’altra sera, dopo l’ovvia cancellazione dell’illegale tête-à-tête Meloni-Schlein, ci stavamo sbudellando per le rosicate del neo-femminista Vespa (“Hanno proibito il confronto fra due donne”), delle vedove inconsolabili del Pd ansiose di violare la par condicio voluta da loro (“Negano la prima serata alle donne” che imperversano in tutte le prime serate) e delle relative prefiche dei giornaloni, quando è apparso Bruno Lingua in persona. Ovviamente in primissima serata, per replicare l’editto bulgaro e fare il consueto uso criminoso della televisione pubblica pagata con i soldi di tutti. Il noto fuorilegge si è ribellato in diretta alla par condicio e all’Agcom che – per la seconda volta in 20 mesi, prima col duetto Meloni-Letta e ora con quello Meloni-Schlein – gli ha impedito di truccare il voto con marchette ai suoi storici mandanti: la destra e il Pd. E ha raccontato una par condicio che non esiste per accusare di averla violata nel lontano 2001 – come direbbe lui, “senza contraddittorio” – tre giornalisti e due artisti, rei di aver fatto i loro rispettivi mestieri: Biagi, Santoro, il sottoscritto, Luttazzi e Benigni (e s’è scordato Montanelli). Biagi intervistò Benigni sul futuro premier, Luttazzi intervistò me sui rapporti documentati fra Cosa Nostra, B. e Dell’Utri, Santoro trasmise reportage sul tema e li fece commentare da personalità di ogni orientamento. Tutte condotte non solo lecite, ma doverose, che nessuna legge sulla par condicio (che si occupa della parità di spazi televisivi per i candidati) s’è mai sognata di vietare.

 

Ma per il Dalmata dei mezzibusti lo scandalo è proprio questo: che i giornalisti dessero notizie vere e gli attori satirici facessero satira. Per lui il giornalismo è dirigere il traffico fra le balle dei politici, far pagare dalla Rai 260 milioni di lire a Scattone e Ferraro sul conto di un prestanome per aggirare il sequestro dei beni per i genitori di Marta Russo, ospitare politici che cucinano risotti, fanno karaoke con cantanti, fingono di giocare a tennis con Panatta, firmano contratti-patacca con gli ignari italiani, duettano in due come se fossero candidati solo loro (peraltro finti), fanno da testimonial ai vini della sua masseria. A proposito delle “accuse da ergastolo” che avrei lanciato a Satyricon, Vespa si scorda di rammentare che erano tutti fatti veri, come hanno appurato 24 sentenze del Tribunale di Roma, della Corte d’Appello e della Cassazione respingendo le otto cause civili intentate da B. e dai suoi cari a me, a Veltri, a Luttazzi e a Freccero; che Dell’Utri – a suo dire “massacrato” da Santoro – fu poi condannato a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa con una sentenza che ritiene provati i finanziamenti di B. a Cosa Nostra dal 1974 a ‘92, l’anno delle stragi.

Dimentica che, per aver fatto il proprio dovere, i personaggi citati sparirono da tutte le tv per anni con l’editto bulgaro, mentre lui, in pensione da 18 anni, è sempre su Rai1 con un programma quotidiano e uno trisettimanale e un principesco contratto da “artista” per aggirare un’altra regola: il tetto agli stipendi della Rai. Siccome poi Santoro è un leader candidato alle Europee, la par condicio l’ha violata proprio lui attaccandolo in contumacia in prima serata senza diritto di replica a tre settimane dal voto; e anche promuovendo Elly Schlein a “leader dell’opposizione” (carica inesistente di sua fresca invenzione).

 

Ma il momento più alto è quando Vespa sostiene che la “campagna televisiva” del 2001 “costò a Berlusconi da uno a tre milioni di voti”, tant’è che fu definita “crimine politico” da un personaggio autorevole e equilibrato come Cossiga. Ne aveva già parlato nel gennaio scorso, arringando la convention-seduta spiritica di FI all’Eur in memoria del nano estinto. Ma allora disse che avevamo rubato a B. la bellezza di “9 punti” in un mese, facendolo precipitare “dal 58,7% al 49,5%” e “portando a votare Rutelli 3 milioni di italiani” pigri o riottosi. Ora, quattro mesi dopo, le cifre già cambiano (quando si raccontano balle, bisognerebbe almeno coordinarle): quel terremoto scende non si sa bene se a 1 o a 3 milioni di voti, cioè a 2,7 o a 8,1 punti. E non si sa bene in base a quali calcoli scientifici: anche quella campagna elettorale durò 40 giorni, con migliaia di ore di propaganda berlusconiana su Rai & Mediaset. Ma, secondo Vespa, bastarono 25 minuti di Satyricon, 20 minuti di Biagi e 2 ore di Santoro a far perdere a B. “enorme popolarità e punti, perché veniva presentato come un mascalzone”. Cosa che gli italiani, dopo 2 condanne prescritte per corruzione e finanziamento illecito, 6 processi per corruzione giudiziaria (Sme-1 e Mondadori) e falso in bilancio (Lentini, All Iberian-2, Sme-2, Fininvest), un’indagine per le stragi di Capaci e via D’Amelio, non potevano neppure sospettare. Purtroppo gli si è rotto il pallottoliere proprio quando l’insetto stava calcolando quanti voti gli fece guadagnare lui con lo sketch del Contratto con gli Italiani a cinque giorni dalle elezioni. “Lo convinsi io”, s’è vantato il conduttore-consulente-visagista: “Feci cercare la scrivania di ciliegio nell’attrezzeria Rai”. Chissa ora quale prezioso pezzo di arredamento aveva in serbo per il Contratto con Giorgia & Elly. “Chiunque sia venuto ospite da me non si è mai lamentato”, anche “la Schlein è stata contentissima”. E queste, che per qualunque giornalista di qualunque democrazia sarebbero vergogne da nascondere, per lui sono medaglie da esibire. Chi va da lui non rischia domande né notizie vere. Solo di scivolare sulla bava.

Sorgente ↣ : Par linguicio – Il Fatto Quotidiano

 

Corriere separate

L’editoriale di Marco Travaglio

Corriere separate

Perché il governo voglia separare le carriere di pm e giudici anziché le barche degli Spinelli dai Toti, lo capisce anche un bambino: per punirli, indebolirli, spaventarli e indurli finalmente a non indagare su di loro o, se proprio qualche temerario ancora si azzarda, ad assolverli; e poi per abolire l’azione penale obbligatoria, far decidere al Parlamento quali indagini fare e quali no, e mettere le Procure al guinzaglio del governo (come nei Paesi con carriere separate). Ma non possono dirlo, quindi s’inventano scuse alla Blues Brothers. Tipo che, essendo colleghi, i giudici danno sempre ragione ai pm: il che è falso, visto che le richieste di un pm vengono disattese una volta su due da gip, gup, tribunali, corti d’appello e Cassazione (a proposito, separare pm e giudici non basta e servono almeno otto carriere: pm, gip, gup, giudici di primo grado, pg d’appello, giudici d’appello, pg di Cassazione e giudici di Cassazione, senza contare i secondi appelli dopo gli annullamenti). O tipo che in tutto il mondo il pm non può diventare giudice e viceversa. Ma è un’altra balla: i passaggi di funzione sono permessi ovunque; il Consiglio d’Europa li raccomanda perché pm e giudici sono “simili e complementari” e devono perseguire entrambi la verità (non le condanne purchessia); e già oggi in Italia, con le assurde barriere della schiforma del 2007, sono poche decine di casi all’anno.

L’altra sera, a Ottoemezzo, Italo Bocchino ha aggiunto un altro tocco di surrealismo al dibattito rivelando una tragica esperienza vissuta “in una nota città giudiziaria napoletana” (che, a occhio e croce, dovrebbe essere Napoli): “A un processo sono arrivati sulla stessa auto il pm e il giudice. Come può un cittadino stare sereno?”. In effetti l’idea che un pm veda un giudice (o, peggio, un avvocato) che corre trafelato verso il tribunale e gli dia un passaggio basta e avanza per separare le carriere. Bisognerà precisare bene nella riforma tutte le condotte proibite ai pm e ai giudici separati nella formazione, nei concorsi, nelle funzioni, nel Csm, ma anche in auto e su qualunque altro mezzo di trasporto: separazione delle carriere, ma soprattutto delle corriere. E non basta ancora. Alcuni anni fa, su Libero, un altro giurista per caso citò due fatti agghiaccianti che impongono la Grande Riforma: le mamme del pm Henry Woodcock e di Sandro Ruotolo erano amiche (quindi, oltre alle carriere, bisogna separare le famiglie); e un pm di Milano aveva messo incinta una gip che per giunta era pure la sua compagna. Ergo vanno separate le carriere di tutti i pm da quelle di tutti i giudici per impedire rapporti sessuali incrociati: la separazione dei letti, o almeno degli organi genitali. Una riforma, più che costituzionale, anticoncezionale.

 

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Teste lucide

L’editoriale di Marco Travaglio

Teste lucide

Per dire in che mani siamo, noi dell’Impero del Bene intendo, ecco due notizie che fanno ben sperare nella terza guerra mondiale. Il “liberale” Charles Michel, la testa più lucida dell’Ue (ma solo perché l’altra è la von der Leyen), dice che per le alleanze post-voto “conta solo la sostanza”. Cioè vanno bene “anche partiti definiti di estrema destra”, che vantano “personalità con cui si può collaborare”, purché “siano pronti a cooperare per sostenere l’Ucraina, difendere i principi democratici e rendere l’Ue più forte”. L’idea di allearsi coi nazifascisti per difendere la democrazia potrebbe apparire lievemente contraddittoria, ma non se per “principi democratici” s’intendono le armi all’Ucraina, che ha abolito i partiti di opposizione e schiera battaglioni neonazisti.

Il “democratico” Antony Blinken, la testa più lucida degli Usa (ma solo perché l’altra è Biden), ha reso visita a Zelensky (visto che Netanyahu ormai lo prende a calci) per preparare le esequie di Kharkiv e di qualche altro migliaio di giovani ucraini. Ma è apparso sorridente anche se, notano le gazzette atlantiste, un po’ “preoccupato” per la Caporetto in corso. Ha annunciato i nuovi armamenti, mentre Kiev segnala di aver “finito i soldati” e non ha più neppure le trincee perché i 170 milioni appena stanziati dalla Nato se li sono fregati i soliti corrotti locali. E, sulle ali del buonumore, ha imbracciato una chitarra e ha cantato un brano di Neil Young con una band punk-rock in un pub di Kiev. Purtroppo non s’è neppure accorto di aver scelto, del cantautore canadese, uno dei brani più feroci sulla società Usa: Rockin’ in the Free World. Alla fine della cantatina, con notevole senso dell’opportunità, ha salutato caramente i soldati ucraini, che “combattono anche per noi”, cioè per procura. E la cosa è molto piaciuta alla testa più lucida dell’italo-atlantismo, Paolo Mieli: “Blinken, a Kyiv, ha buttato via l’abito gessato e l’aria da bravo ragazzo e con jeans e maglietta è andato in un pub dove ha cantato Rockin’ in the Free World. Questa cosa ha fatto più per l’Ucraina che la promessa di nuove armi”. A saperlo prima, l’Occidente poteva risparmiare i 322 miliardi di dollari fin qui buttati per Kiev e, al posto, spedire chitarre elettriche e impianti karaoke. O magari organizzare Sanremo, l’Eurovision o Castrocaro sulla linea del fronte. Ma per gli esausti soldati ucraini sopravvissuti alla carneficina dev’essere stato un bel sollievo apprendere che Blinken canta e suona bene: un effetto elettrizzante paragonabile soltanto a quello della celebre visita di Marilyn Monroe 70 anni fa ai marines in Corea. Il guaio è che la voce si è sparsa anche fra le truppe russe, che stanno accelerando la marcia su Kiev via Kharkiv per non perdersi il prossimo concerto.

 

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Bagasce&troioni

L’editoriale di Marco Travaglio

Bagasce&troioni

Uno dei mille aneddoti svelati da Antonio Padellaro nel suo strepitoso libro Solo la verità lo giuro (Piemme), riguarda l’ex ministro dei Trasporti Claudio Signorile, leader della “sinistra ferroviaria” del Psi. Che 40 anni fa, a proposito di uno dei tanti scandali alle Fs, anticipò a lui e a Paolo Graldi la linea difensiva della banda Toti: quella delle mazzette fatturate, dunque “trasparenti” e lecite. Ma si era raccomandato: “Ragazzi, è roba confidenziale, non scrivete una riga”. Oggi invece gli scudi umani, cioè gli avvocati, ministri, politici e giornalisti appesi agli specchi delle tangenti alla genovese, quella sesquipedale minchiata giuridica la sbandierano ai quattro venti. In Parlamento, in tv, sui giornali, sui social. E con l’aria indignata, come a dire: dove andremo a finire, signora mia, se un pubblico amministratore non può più nemmeno vendere la sua funzione a un imprenditore e un’ora dopo passare dalla barca alla banca per incassare la rispettiva tangente tracciabile e fatturata. Delle due l’una: o ignorano il Codice penale e la legge sul finanziamento ai partiti, che parla di “erogazioni liberali” (cioè spontanee e disinteressate) dai privati, non di norme o delibere o concessioni o licenze vendute un tanto al chilo; oppure sanno tutto, ma se ne infischiano e fanno come Toti&C. Nel qual caso farebbero meglio a costituirsi nella più vicina caserma, confessare e patteggiare prima di essere beccati anche loro.

 

I più spiritosi invocano il “primato della politica”, come se le foto e i filmati della Guardia di Finanza al porto di Genova non l’avessero immortalato a sufficienza. Un incessante e imbarazzante pellegrinaggio di politici di destra, di centro e del solito Pd su e giù dallo yacht di Spinelli, lasciando spesso fuori i cellulari perché non si sa mai, ignari dei trojan ma non dei “troioni” e delle “bagasce” che la cricca metteva gentilmente a disposizione per viaggi all inclusive, pagando pure le borse griffate e gli orologi che i pubblici amministratori straccioni fingevano di regalare a proprie spese. Sono trent’anni che, appena finisce dentro qualcuno dei suoi, la banda del buco rivendica il “primato della politica”. Ma quello sbagliato, sulla magistratura: come se la politica fosse al di sopra della legge. Non quello giusto, sull’economia e le lobby: infatti tutti gli scandali nascono da politici genuflessi a chi li paga. Quelle processioni sulla passerella del “Leila2” ricordano Fantozzi e Filini sullo yacht del direttore magistrale duca conte Pier Matteo Barambani, che finge di invitarli a un weekend in barca perché “la mia famiglia siete voi” e poi li adibisce a mozzi di bordo chiamandoli democraticamente “i miei poveracci, i miei pezzenti, i miei cari inferiori”. Le vere bagasce, i veri troioni sono loro.

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Stati senza statisti

L’editoriale di Marco Travaglio

Stati senza statisti

A ottobre, quando scrissi Israele e i palestinesi in poche parole”, pensai che pochi sapessero o ricordassero perché la guerra dei cent’anni era giunta al pogrom di Hamas e alla mattanza di Israele a Gaza. Non sospettavo che i primi a non conoscere la storia fossero proprio i governanti di Israele e i loro sostenitori in Occidente. Altrimenti l’altro giorno non avrebbero negato il Sì alla risoluzione dell’Assemblea dell’Onu che riconosce alla Palestina i titoli per diventare membro effettivo e raccomandare al Consiglio di Sicurezza di rimuovere il veto (dei soliti Usa). Quasi tutto il mondo (143 Paesi) ha votato Sì, mentre Usa, Israele, Argentina e altri sei han votato No e 25 si sono astenuti (fra cui campioni di viltà come Italia, Germania, Gran Bretagna, Canada, Ucraina, Georgia, Olanda, Austria, Svezia, Finlandia, Lettonia e Lituania). “Avete aperto l’Onu ai nazisti moderni dello Stato terrorista palestinese”, ha strillato l’ambasciatore israeliano Gilad Erdan: “State facendo a pezzi la Carta dell’Onu con le vostre mani”. E l’ha distrutta passandola nel tritacarte. Questo somaro non sa o finge di ignorare – proprio come Hamas e una parte dei filopalestinesi che manifestano contro il “sionismo”, cioè contro il diritto di Israele a esistere – che lo Statuto dell’Onu, siglato nel 1945 dai 51 Stati fondatori, è la fonte del Diritto internazionale che legittima l’esistenza di Israele. Uno dei primi atti dell’Onu fu la risoluzione 181 del 29 novembre 1947 che a gran maggioranza (33 Sì, fra cui Usa e Urss; e 13 No, gli Stati arabi e pochi altri) spartì la Palestina in due Stati: uno ebraico, uno arabo. Il primo nacque nei confini assegnati dall’Onu il 14 maggio 1948, il secondo no perché la leadership palestinese e i governi arabi vi rinunciarono, ritenendo più urgente cacciare gli ebrei con una guerra che poi persero (come le successive nel 1956, nel 1967 e nel 1973). Il coglione che rappresenta Israele al Palazzo di Vetro (come chi l’ha mandato) non s’è neppure accorto che, distruggendo quella Carta, ha ucciso la madre di Israele (l’Onu) e cancellato il certificato di nascita del suo Stato. E portato altra acqua al mulino di chi ne rimette in discussione la legittimità approfittando delle stragi a Gaza, straparla di “76 anni di occupazione” e reclama lo “Stato palestinese dal fiume Giordano al mare Mediterraneo”.

 

Trent’anni fa, dopo 27 anni di galera per terrorismo, Nelson Mandela diventava presidente del Sudafrica. E il suo predecessore bianco-boero Frederik de Klerk si degradava a suo vice. Due nemici divenuti statisti per salvare il Paese dal bagno di sangue dopo mezzo secolo di apartheid: infatti vinsero il Nobel. Proprio quello che manca oggi agli israeliani e ai palestinesi in questa carneficina infinita: due statisti.

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Le Vespe Terese

L’editoriale di Marco Travaglio

Le Vespe Terese

Alla demenziale decisione della Schlein di duettare con la Meloni in quella che chiama TeleMeloni, legittimandola proprio nella sua quintessenza che è Porta a Porta, cioè TeleLingua, sono seguite le richieste altrettanto folli dei 5 Stelle e degli altri partiti a Bruno Vespa di inscenare anche per loro siparietti analoghi in nome della par condicio. Come se la par condicio non fosse irrimediabilmente violata proprio dal faccia a faccia fra la premier e la segretaria Pd a due settimane dal voto con l’incredibile avallo di Rai, Agcom e Vigilanza. Ci avevano già provato la Meloni ed Enrico Letta alla vigilia delle Politiche del 2022 e l’Agcom li aveva stoppati proprio in nome della par condicio, tant’è che traslocarono sul Corriere.it (dove fecero dormire tutti). Ora Meloni&Schlein la violano triplamente: perché, diversamente da Meloni&Letta nel 2022, si candidano alle Europee solo per finta; perché alle Europee si vota col proporzionale, ogni partito per conto suo senza coalizioni; e perché non c’è motivo di mettere a confronto due leader alla volta, né di partire con Meloni&Schlein, né di metterle in coppia fra loro e non con altri. Si dirà: valgono i voti delle Politiche. Ma allora con la Meloni dovrebbe duellare (si fa per dire) Letta: nel 2022 la Schlein non solo non era segretaria del Pd, ma neppure iscritta. Se Vespa, alla vigilia delle elezioni del 2013, avesse seguito l’ordine di quelle del 2008, avrebbe invitato B.&Veltroni, salvo poi scoprire dalle urne che i primi due partiti appaiati erano Pd e M5S, che nel 2008 non esisteva e cinque anni dopo balzò da zero al 25,5%. E, se valessero i voti del 2022, sarebbero esclusi Stefano Bandecchi, Cateno De Luca e Michele Santoro.

Quindi la graduatoria vespiana dei leader si basa sui sondaggi? Ma, se così fosse, il leader con più consensi dopo la Meloni è Conte, che stacca sempre la Schlein di 5 o 6 punti. Ma sarebbe assurdo basarsi su dati tanto aleatori. L’unica soluzione equa è sorteggiare le coppie e l’ordine di apparizione. Ma poi, se il numero dei leader è dispari, quello rimasto da solo con chi si confronta: con un cartonato? Con uno specchio? Con un avatar di ChatGpt? Di tanta assurdità si erano accorte persino Meloni e Schlein che, prevedendo un veto dell’Agcom, s’apprestavano ad aggirarlo su Instagram, nel Far West dei social. Invece l’Agcomica ha dato l’insperato ok. Da qualunque lato lo si guardi, il duetto delle due Vespe Terese è una sconcezza contro ogni regola e decenza. E i leader esclusi farebbero bene a non prestarsi come foglie di fico a legittimarlo replicandolo in scala minore nelle serate successive. Lo sketch delle due finte candidate deve rimanere un unicum nella storia, come il Gronchi rosa per i filatelici: un reperto di TeleRegime a imperitura memoria.

 

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Pizzini aretini

L’editoriale di Marco Travaglio

Pizzini aretini

L’altro giorno abbiamo letto il solito pezzo fantasy del Foglio, “Un Loft in Rai per il Fatto quotidiano” e ci siamo domandati chi sarebbe stato così fesso da crederci. La risposta è arrivata a stretto giro: Maria Elena Boschi che, per via dell’occhio acuto, è vicepresidente della Vigilanza. E, in un’amorevole intervista di Giovanna Vitale su Repubblica (manca solo la domanda “Ma come fa a essere così brava?”), riesce addirittura a superare i suoi classici standard di sagacia. 1) Scopre che la Rai acquista anche format esterni (gli amici Lucio Presta, Simona Ercolani &C. le nascondono proprio tutto), anzi uno solo: La confessione di Peter Gomez, prodotta dalla nostra Loft e andata in onda su Rai3 per meno di due mesi in 7 puntate dai costi irrisori (fra l’altro nel 2024, mentre la tapina parla del bilancio 2023). 2) “I conti della società Seif, proprietaria del Fatto quotidiano, si reggono sui programmi venduti da Loft. Non lo dico io: è scritto nell’ultimo bilancio”. Quindi la poverina non sa leggere o non capisce ciò che legge: nell’ultimo bilancio i ricavi Seif si reggono sui contenuti media (tra cui Loft) per l’8,59% e sui prodotti editoriali (Fatto, sito e libri PaperFirst) per l’80,71%. 3) “Loft potrebbe far cassa grazie alla Rai e salvare il giornale… e Travaglio… dal possibile fallimento… con soldi dei contribuenti”. Il che detto, da una delle massime esperte mondiali di fallimenti (dal Pd renziano alla Banca Etruria mirabilmente amministrata da suo padre alla sua schiforma costituzionale, molto apprezzata in Niger), è uno spottone alla solidità dei nostri conti, peraltro migliorati del 45% dal 2022 al ‘23.

4) Lubrificata dalla ficcante domanda “È la ragione per cui Travaglio insiste col dire che non c’è alcuna occupazione militare della Rai, che la destra sta facendo quello che ha fatto la sinistra?”, la ex lobbista di Etruria sostiene che io sarei in “conflitto d’interessi” perché il Fatto “non esprime mai una critica verso la Rai dell’era Meloni”, anzi “Travaglio usa i guanti di velluto, arriva proprio a difenderla”. A parte la rubrica Cinegiornale Luce sulle marchette dei tg Rai e le centinaia di commenti di Padellaro, Valentini, Lerner, Crapis, Delbecchi giù giù fino al sottoscritto che ha appena definito i vertici meloniani “mix di servilismo e stupidità”, “così fessi da sembrare censori anche le rare volte in cui non lo sono”. Il che conferma che la nota aretina non sa leggere o non capisce ciò che legge, o entrambe le cose. Però è dotata di notevole humour: sennò non accuserebbe gli altri di lottizzare la Rai, avendola i renziani occupata al 100% nel 2014-‘19 e seguitando a occuparla in tante caselle chiave, dalla presidenza della Soldi al Tg3 di Moiro Orfeo, ora che non li vota più nessuno.

 

E non accuserebbe uno dei rari giornali di opposizione di non opporsi abbastanza mentre lei e tutta Iv si alleano con le destre in mezza Italia, votano le loro peggiori porcate e si astengono sul premierato. È spiritosa almeno quanto Repubblica, che grida un giorno sì e l’altro pure alle censure altrui avendo un direttore appena sfiduciato per aver mandato al macero 100 mila copie nottetempo per far sparire un articolo che pensava sgradito al padrone. 5) “Loft pare stia trattando con la Rai per la vendita di altri programmi”. E qui, dobbiamo confessarlo, la signora in giallo di Laterina ci ha sgamati. Dopo aver rifiutato per anni qualsiasi proposta di condurre tg e programmi Rai per via della lottizzazione, abbiamo appena rotto gli indugi, concordando coi vertici Rai un palinsesto tutto Fatto, dall’alba al tramonto: roba da far impallidire TeleRenzi e TeleDraghi, dove Pd&Iv piazzavano i meglio fichi del gruppo Espresso & Gedi, uscieri inclusi, come presidenti, direttori, conduttori, rubrichisti e ospiti fissi. Io dirigerò il Tg1 e vi trasferirò la nostra squadra di inchiestisti, perché la Meloni ha molto apprezzato i nostri scoop sui suoi Sgarbi, Santanchè, Lollobrigida, Crosetto, Corsini e la sua nuova villa con piscina. Gomez andrà al Tg2, per rilanciarli da par suo. La Lucarelli guiderà il Tg3: i vertici Rai hanno adorato i suoi colpacci su Montesano a Ballando e sulle marchette sanremesi alle sneakers di Travolta. Molti i talk show: Maddalena Oliva su gender e diritti delle donne; Silvia Truzzi su premierato e autonomia; Montanari e Lerner sul ritorno del fascismo e i migranti perseguitati; Basile, Fini, Mini, Orsini e Spinelli sulla geopolitica e i disastri meloniani da Kiev a Gaza; Lillo e Barbacetto sulle schiforme giudiziarie con Caselli, Davigo ed Esposito; la Ranieri sull’egemonia culturale della destra. Sommi rileverà Porta a Porta da Vespa, ormai inviso ai Melones per l’aggressività del suo giornalismo investigativo. Natangelo, venerato da Giorgia e soprattutto da Arianna e Lollo per le vignette sul lettone, avrà un programma di satira con Mannelli, Vauro e Disegni. Scanzi andrà in prima serata con lo spettacolo La Sciagura. Inutile precisasre chi saranno il presidente e l’ad di TeleFattoMeloni: Antonio Padellaro e Cinzia Monteverdi.

Molti lettori ci scrivono di non farci intimidire dai pizzini boschiani, e vogliamo rassicurarli: non ci sono riusciti B., Previti, Dell’Utri&C., figurarsi questa. Altri ci invitano a querelarla e ne faremmo volentieri a meno, visto che i renziani votano regolarmente l’impunità agli altri e gli altri la votano a loro. Ma a nessuno è consentito di mentire sui bilanci di un gruppo quotato in Borsa. Quindi ci vedremo nell’habitat che più le è congeniale: il tribunale.

 

Sorgente ↣ : Pizzini aretini – Il Fatto Quotidiano

 

Famo Casino Day

L’editoriale di Marco Travaglio

Famo Casino Day

rmai non c’è più festa nazionale che non venga usata da questo o quel partito per farsi propaganda, confidando nelle telecamere in piazza e nella smemoratezza storica generale. Accade dal 2022 col 25 Aprile, festa della Liberazione dal nazifascismo, dove si imbucano le delegazioni ucraina e palestinese, che storicamente c’entrano come i cavoli a merenda. L’Ucraina nel 1941 accolse i nazisti come liberatori in funzione anti-sovietica e nei tre anni di controllo hitleriano sterminò un milione di ebrei e deportò gli altri due in Germania, fino alla liberazione da parte dell’Armata Rossa. Negli stessi anni la dirigenza palestinese intorno al Gran Muftì di Gerusalemme, devoto fan e alleato di Hitler e Mussolini, reclutava SS musulmane e progettava stermini di ebrei, mentre la Brigata ebraica combatteva i nazifascisti. Le colpe dei padri non ricadono sui figli, e neppure i meriti, ma ci sarà un motivo se il 25 Aprile non lo festeggiamo coi tedeschi (mentre dovremmo farlo con gli americani, gli inglesi e i russi). Anche il Primo Maggio, col governo Meloni, è diventato tutt’altro che la Festa dei Lavoratori: una passerella per approvare i “decreti 1° Maggio”, che non fanno nulla per i lavoratori, ma infilano le solite mance nelle tasche dei padroni, mentre a chi lavora si nega pure il salario minimo e a chi cerca lavoro si ruba il reddito di cittadinanza.

 

Ora tocca al 2 Giugno, Festa della Repubblica nell’anniversario del referendum del 1946 che abolì la monarchia perché, dopo i meriti acquisiti con l’Unità d’Italia, si era macchiata della ventennale complicità col fascismo. Il Pd annuncia che la trasformerà in una manifestazione contro il premierato meloniano. Che è una boiata pazzesca e va contrastata con ogni mezzo lecito. Ma non il 2 Giugno, che c’entra col premierato quanto la Sagra della porchetta ad Ariccia e la Fiera del bue grasso a Carrù. A parte il fatto che l’aveva già proposta l’Ulivo nella Bicamerale del 1997, l’elezione diretta del premier non ripristina la Monarchia né altera la forma repubblicana dello Stato. Usa la procedura prevista dalla Costituzione per stravolgere gli equilibri fra governo, Parlamento, capo dello Stato e poteri di controllo. Ma il 2 Giugno è anche la festa dei presidenzialisti, come di tutti quelli che scelsero Repubblica contro Monarchia (che, se avesse vinto, dopo il più che degno Umberto II, ci avrebbe regalato sul trono Vittorio Emanuele IV e ora Emanuele Filiberto). Perciò dovrebbe accomunare tutti i partiti repubblicani, da destra a sinistra, esclusi solo i monarchici, che invece festeggiano a buon diritto il 25 Aprile perché sedettero nel Cln e contribuirono alla Liberazione. Ma questi politici dove l’hanno studiata la Storia: su Tiramolla?

 

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Dio non esiste

L’editoriale di Marco Travaglio

Dio non esiste

Per 15 mesi abbiamo sperato che Elly Schlein cambiasse nel Pd qualcosa oltre al segretario, criticandola perché non lo faceva. Ora, dimenticando per un attimo l’incredibile candidatura finta alle Europee, merita solo applausi per aver firmato il referendum Cgil contro il Jobs Act. Mossa che comprensibilmente terremota il partito, perché vi ha lo stesso effetto che avrebbe sulla Chiesa un’enciclica del Papa dal titolo: “Dio non esiste”. Da quando nacque con Veltroni, peggiorò con Napolitano e Letta, s’infettò con Renzi e defunse con ri-Letta al seguito della fantomatica Agenda Draghi, il Pd ha sempre venerato la trimurti Lavoro precario-Sussidi alle imprese-Paghe da fame: dalla legge Treu al Jobs Act, dall’abolizione dell’articolo 18 ai voucher di Gentiloni, dai no al Reddito di cittadinanza e al dl Dignità del Conte-1 alla restaurazione draghiana che smantellò il dl Dignità, attaccò il Rdc e levò il salario minimo dal Pnrr contiano. Lo chiamavano “riformismo”, parolaccia che nasconde il più ciclopico fallimento della storia e che la gente perbene ha imparato a neutralizzare dotandosi di mutande di ghisa e da camminare rasente al muro. Infatti la setta degli adoratori superstiti della Trimurti, accampati fra Azione e Iv, veleggia fra il 5 e il 6% ni sondaggi.

 

Il guaio, per la Schlein, è che il 99% del Pd, anche quello che sta con lei, dieci anni fa votò il Jobs Act senza fare un plissé. Il che spiega, con tutte le altre scelte demenziali, perché i dem non si schiodano dal 19-20% e hanno ancora i 5Stelle alle calcagna: perché il M5S diceva 10-15 anni fa ciò che il Pd dice solo ora (su Rdc, dl Dignità, salario minimo, Jobs Act, spesa militare) o dirà domani. A proposito di domani: ora che persino il Corriere, con un ottimo commento di Massimo Nava, invita tutti (in primis il Corriere) a non “zittire come filorusse le voci critiche” su Kiev, a smetterla di “riempire di armi l’Ucraina prolungandone l’agonia” e a scoprire “un po’ di realismo che tenga conto dei rapporti di forza” (Orsini, è lei?), forse prima o poi il Pd smetterà di votare con le destre per la guerra a oltranza fino all’ultimo ucraino (salvo ammettere di aver candidato Tarquinio, Strada e Cristallo come foglie di fico). Poi forse la pianterà di astenersi sulle schiforme della giustizia, di fare inceneritori e opere inutili da Calce&Martello e di negare ai giudici le prove contro Renzi&C. Se poi prendesse a prestito dai 5Stelle le regole che vietano di candidare voltagabbana e poltronari con sei, sette, dieci mandati, Elly si libererebbe gratis di tutti i famosi cacicchi ed eviterebbe pure scandali tipo Puglia, Sicilia e Piemonte. Ma soprattutto scioglierebbe il famoso nodo del rapporto con Conte: a quel punto 5Stelle e Pd sarebbero la stessa cosa e potrebbero tranquillamente fondersi.

 

Sorgente ↣ : Dio non esiste – Il Fatto Quotidiano