Tutte d’un prezzo

L’editoriale di Marco Travaglio

Tutte d’un prezzo

La sempre autorevole Repubblica informa che Putin ha avviato la campagna primavera-estate delle fake news: “I troll russi dietro i complottismi sulla salute della principessa Kate” (che invece, com’è noto, gode di ottima salute). Ma i troll russi una ne fanno e cento ne inventano, infatti hanno messo in bocca a Elly Schlein la candidatura di Lucia Annunziata alle Europee. Una bufala clamorosa, visto che l’Annunziata aveva lasciato la Rai il 3 settembre 2023 per non diventare una collaborazionista di quest’orrendo governo e giurando solennemente al Corriere: “Non mi candiderò mai e poi mai alle Europee. Né con il Pd, né con nessun altro partito. Spero che questa smentita sia chiara abbastanza per mettere tranquilli tutti”. Chiunque abbia minima contezza della sua tetragona coerenza può mettersi tranquillo: mai e poi mai troveremo il suo nome nelle liste del Pd o di alcun altro partito. Stiamo parlando di Lucia Annunziata, mica di una pagliaccia qualunque.

 

Un’altra fake news, talmente dozzinale da non poter che essere putiniana, è quella che vuole un’altra donna tutta d’un pezzo, Emma Bonino, alleata di Renzi e Cuffaro. Anche lei ha parlato chiaro e, quando parla, non cambia più idea. Il 1° agosto dichiarò al Corriere: “L’accordo è possibile, fermiamo la destra putiniana. Renzi in coalizione? No”. Perché “non vivo di rancori, a differenza sua”. Lui del resto nel 2014 l’aveva cacciata dalla Farnesina (“Non sapevo nulla, mi ha fatta fuori dal governo senza nemmeno una telefonata”). E lei l’aveva poi accusato di aver chiesto all’Ue “che gli sbarchi dei migranti avvenissero tutti in Italia in cambio di sconti sull’austerità”, cioè di aver “barattato i soccorsi con la flessibilità sui conti, violando di fatto Dublino”. Figurarsi se la leader di +Europa potrebbe mai allearsi in Europa con chi strinse quel “patto scellerato” con l’Europa. Ne andrebbe della sua cristallina linearità che le ha garantito poltrone e sofà dal lontano 1976 passando dai Radicali di Pannella a Forza Italia di B., Previti e Dell’Utri all’Ulivo di Prodi allo Sdi di Boselli alla Rosa nel Pugno alla Lista Sgarbi-Pannella al Pd a Tabacci ad Azione di Calenda e di nuovo al Pd di Letta. E figurarsi se potrebbe mai entrare in una lista “Stati Uniti d’Europa” dopo aver formato a Bruxelles nel 1999 il Gruppo tecnico dei deputati indipendenti con i peggiori nemici dell’Europa: quelli della Lega e del Msi-Fiamma Tricolore, i fascisti xenofobi belgi di Blocco Fiammingo e l’intera delegazione del Front National di Le Pen (non la moderata Marine: il suo fascistissimo padre Jean-Marie). Casomai servissero altre prove della falsità della notizia, ne basta una: un serio favoreggiatore della mafia come Cuffaro non si mescolerebbe mai con gente tipo Renzi e Bonino.

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Fantocci: è lei?

L’editoriale di Marco Travaglio

Fantocci, è lei?

Il cosiddetto centrodestra sta facendo di tutto per dimostrarsi persino peggiore di B.. Ma al momento, soprattutto con la fantozziana Operazione Puglia, è riuscito solo a rendersi ancor più ridicolo. Partito per guadagnare voti a Bari spacciando Decaro ed Emiliano per due amici della mafia, ne sta regalando altri al centrosinistra, visto che da quelle parti tutti sanno benissimo con chi sta la mafia (l’unica consigliera comunale indagata per voto di scambio è stata eletta nel 2019 col centrodestra prima di venire astutamente imbarcata dal Pd) e con chi l’antimafia (Emiliano da pm fece condannare centinaia di mafiosi e da sindaco ripulì Bari Vecchia, mentre Decaro è scortato da nove anni per minacce mafiose). Meraviglioso il finto scandalo per il racconto di Emiliano sui rudi colloqui con la sorella del boss Capriati e per il selfie di Decaro con un’altra sorella e una nipote del capoclan: scandalo dovuto al fatto che le tre donne sono incensurate.

Ma l’apoteosi va in scena al consiglio comunale, dove i parlamentari di destra tengono una conferenza stampa dando pubblica lettura dell’ordinanza del gip (mostrata su un maxischermo alle loro spalle) che a febbraio ha arrestato 130 persone, con tanto di intercettazioni. Cioè infrangono ben due leggi da essi stessi appena votate: la Cartabia sulla “presunzione d’innocenza” che vieta di nominare gli arrestati e il bavaglio Costa che proibisce la “pubblicazione integrale o per estratto del testo dell’ordinanza di custodia cautelare”, anche se non sono segrete. Alla sceneggiata presenzia quel gran genio del viceministro Sisto, già difensore di B. nella Puttanopoli barese e gran tifoso del bavaglio: “La scelta di non consentire la pubblicazione dell’ordinanza di custodia è in perfetta linea col diritto di difesa e la presunzione di non colpevolezza”, disse quando la porcata divenne legge. Ora, mentre i colleghi la violavano coram populo, s’è scordato di farli arrestare seduta stante. Intanto il forzista Raffaele Nevi, a Tagadà, confessava bel bello di avere “sul telefonino la richiesta di misure cautelari della Procura” e si offriva di “leggerne un pezzettino” agitando lo smartphone a favore di telecamera con il documento doppiamente vietato: se le ordinanze del gip non sono segrete (ma ora impubblicabili), le richieste del pm lo sono (dunque doppiamente vietate) e sarebbe interessante sapere chi gliele ha date. Purtroppo nelle carte non compaiono né Emiliano e Decaro, né le tre parenti di Capriati, tutte incensurate. Fossero state pregiudicate, il centrodestra figlio di B., Dell’Utri, D’Alì, Cuffaro, Cosentino, Verdini, Formigoni & C. creperebbe d’invidia per non aver pensato di farci un selfie o una chiacchierata, ma soprattutto di candidarle.

 

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Due veri mafiosi

L’editoriale di Marco Travaglio

Due veri mafiosi

L’errore di Michele Emiliano non è stato raccontare (per l’ennesima volta) un episodio di vita vissuta col giovane Antonio Decaro nella Bari Vecchia degli anni 2007-2008. È stato non prevedere che, col caso Bari su tutti i giornali, il suo racconto sarebbe finito in pasto a chi quella storia (sua e della città) non la conosce e può persino credere alle panzane di politici e giornali di destra. L’attuale presidente della Regione è stato il pm che più di tutti, prima da Brindisi poi da Bari, ha ripulito la Puglia dalla Sacra Corona Unita ottenendo arresti, condanne e confische per centinaia di mafiosi. Nel 2003 prosegue l’opera da sindaco: il Comune inizia a costituirsi parte civile nei processi di mafia, confisca i beni alle famiglie e avvia protocolli e progetti di legalità e antimafia sociale (“Il magistrato trova i vasi già rotti, il sindaco cerca di evitare che si rompano”). Il Far West di Bari Vecchia, la Scippolandia dove si spara ad altezza uomo, cambia volto. Nel 2004, con assessore al Traffico il novellino Decaro, Emiliano la svuota dalle auto, scatenando la rivolta dei residenti, famiglie mafiose in testa. Il clima è rovente: il Sindaco Sceriffo e l’assessore, contestati e minacciati, girano per i quartieri, riuniscono i comitati, spiegano che la musica cambia per il bene di tutti.

 

In quelle assemblee infuocate e nei tour per le piazze dove si vive e si mangia per strada e si rincasa nei “sottani” solo per dormire, Decaro è un pesce fuor d’acqua, mentre l’ex pm conosce a uno a uno i parenti dei boss che ha fatto arrestare e condannare. “Dove prima si sparava nascosti dietro le auto, ora mettiamo le fioriere e i vostri figli possono giocare senza rischi”, è il suo refrain. E alle mogli e madri dei detenuti (per mano sua) o dei caduti nelle faide aggiunge: “Volete che i vostri ragazzi finiscano in galera o al cimitero come i vostri mariti e i vostri figli?”. È in questi giri nei vicoli più inquinati che Michele lo Sbirro, privato della scorta appena lasciata la toga, copre con le sue spalle larghe quelle gracili di Decaro e fa quel discorsetto alla sorella di Antonio Capriati (lei incensurata, lui ergastolano per omicidio), come ad altri parenti “eccellenti” che presidiano il territorio con aria bullesca di sfida: qui l’aria è cambiata, rassegnatevi; se avete qualcosa da dire all’assessore, fatelo col rispetto che portate a me. L’ex pm se lo ricorda perché sa con chi parlava e l’ha fatto infinite volte. Decaro no, perché non ha in testa l’albero genealogico dei clan. Tant’è che ieri è uscito un suo selfie del 2022 con due donne imparentate con i Capriati alla festa di San Nicola davanti alla loro boutique. E lui ha dovuto chiedere al parroco chi fossero (non lo sapevano neppure i carabinieri). Peccato non avere in casa un esperto del settore, tipo Dell’Utri o Mangano.

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La gallina che canta

L’editoriale di Marco Travaglio

La gallina che canta

Anche sulla strage di Mosca invidiamo le certezze dei cosiddetti esperti: quelli che un minuto dopo sapevano già che l’Ucraina c’entrava o non c’entrava, o era stato l’Isis, anzi gli islamisti caucasici, o forse i ceceni, o magari le milizie russe filo-ucraine, o più probabilmente Putin si era fatto l’attentato da solo. Quando impareremo a considerare questi sedicenti analisti per volgari propagandisti di Putin o di Biden&Zelensky, oppure ultras che descrivono il mosaico geopolitico come una lotta fra cowboy e indiani o fra curva nord e sud, sarà sempre tardi. L’Isis, lo Stato islamico sunnita sorto fra Iraq e Siria sulle ceneri del regime di Saddam spodestato dagli sciiti col nostro astuto appoggio, ha molte ragioni per detestare Putin, nemico del jihadismo in Cecenia, Siria&C. (perciò piaceva tanto ai “buoni” fino al 2022). Anche gli afghani lo odiano: è figlio della Russia che nel 1979 li invase e nel 2001 concesse lo spazio aereo all’operazione Enduring Freedom anti-Talebani. Quindi la pista Isis, profetizzata con mirabile tempismo da Usa e Uk, è plausibile, anche se mancano simboli e slogan jihadisti e la tensione fra quel mondo e Mosca è un po’ vecchiotta.

 

Poi c’è la pista ucraina, molto più attuale, subito negata da Usa e Kiev prim’ancora che Mosca la evocasse. Putin, dopo gli arresti dei presunti stragisti, ha detto che fuggivano verso una “finestra aperta” in Ucraina: accuse tutte da provare (se pure fosse vero che fuggivano non in Bielorussia, ma nella zona di Kharkiv presidiata dalle truppe ucraine, non è detto che il governo lo sapesse). Ma sarebbe più facile smentirle se Kiev non fosse usa alle menzogne più spudorate e non avesse cantato per prima come la gallina che ha fatto l’uovo. Venerdì sera il portavoce dei servizi militari ucraini Andriy Yusov ha definito la strage “una provocazione deliberata del regime di Putin”, che “vuol finire la carriera con crimini contro i suoi stessi cittadini”. Cioè a uccidere i 150 russi e a guastare l’immagine di Putin è stato Putin: una scemenza che alimenta i peggiori sospetti. Al pari del mantra “Noi non pratichiamo il terrorismo”, smentito dall’autobomba che a Mosca uccise Darya Dugina, figlia del filosofo amico di Putin (attentato negato da Kiev e poi risultato opera sua); e dalla distruzione dei gasdotti Nord Stream, che qualche buontempone atlantista tentò di attribuire al solito Putin e invece fu quasi certamente ucraino con l’aiuto di servizi occidentali. Il 7 ottobre, dopo il pogrom in Israele, Zelensky sentenziò: “Dietro Hamas c’è Putin”. E fu sbugiardato dall’ambasciatore israeliano a Mosca: “Totali assurdità, pure teorie del complotto”. Se il regime ucraino vuole apparire estraneo all’ultima strage, è meglio che taccia: appena parla, sembra subito colpevole.

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Pazzi da spazzare

L’editoriale di Marco Travaglio

Pazzi da spazzare

Dopo le faccette nere in Senato, la premier cabarettista si è recata al Consiglio di guerra europeo che l’ha dichiarata alla Russia, anche se nessuno s’è accorto di lei. E forse lei non s’è accorta della dichiarazione di guerra alla Russia. La posizione dei leader che contano si è capita: Michel vuole “prepararsi alla guerra per avere la pace” (praticamente un deficiente); Borrell e Sánchez non vogliono “spaventare i cittadini europei” dicendo la verità, sennò poi non li votano; Macron si traveste da boxeur e vuole inviare truppe a Kiev (non si sa per fare cosa, visto che è l’unico) e frugare nelle nostre tasche per eurobond da investire in armi (mica nella lotta alla povertà e nel green); Scholz, Orbán e i nordici non vogliono altri salassi. È della Meloni che non si capisce la posizione, eccetto il fatto che attende ordini da Biden e trema all’idea che vinca Trump. Stando al documento finale, si direbbe che condivida l’agghiacciante Piano di emergenza con “un approccio multirischio ed esteso a tutta la società” per “rafforzare e coordinare la preparazione militare e civile e di una gestione strategica delle crisi nel contesto dell’evoluzione del panorama delle minacce” (le nostre: la Russia non ha mai minacciato di attaccare un Paese Nato o Ue, mentre è stato un governo Nato e Ue – la Francia – a minacciare di attaccare la Russia). Stando alle sue dichiarazioni di ieri (“Non ho visto un clima di guerra” e il Piano è roba da “protezione civile”), si direbbe che la Meloni non abbia capito ciò che lei stessa ha firmato. Stando alle parole di Crosetto (“Non dobbiamo preparare la guerra, ma scongiurarla”), si direbbe che la premier non parli col ministro della Difesa o che siano di due governi diversi. Stando invece alla sua celebre telefonata coi due comici russi (“Il problema è trovare una soluzione che sia accettabile per entrambe le parti”, russi e ucraini), viene da chiedersi perché non l’abbia mai pronunciata in Parlamento né in Ue.

 

Se alle elezioni europee di giugno e americane di novembre gli attuali leader e i loro partiti non saranno spazzati via, gli storici del futuro – ove mai sopravvivessero – dateranno al 21 marzo 2024 l’inizio della Terza guerra mondiale. Eppure gli europazzi scatenati che firmavano la dichiarazione di guerra se la ridevano beati, quasi che discutessero le misure delle zucchine come ai bei tempi. Non si sono neppure accorti del messaggio devastante che continuano a inviare al Sud del mondo: anatemi, condanne, sanzioni, e mandati di cattura per Putin; e chiacchiere da bar sulla tregua a Gaza per non toccare Netanyahu, che in cinque mesi ha sterminato 32 mila palestinesi, il triplo dei civili ucraini uccisi dai russi in due anni. Poi si meravigliano se ci odiano tutti.

Sorgente ↣ : Pazzi da spazzare – Il Fatto Quotidiano

 

I bari di Bari

L’editoriale di Marco Travaglio

I bari di Bari

Il Pd pugliese ha gravemente peccato e dovrebbe confessare. Ma non ciò che non ha fatto e che gli rimprovera la destra più spudorata dell’universo: e cioè le collusioni mafiose, smentite anche dalla Procura di Bari, che parla di “fenomeno circoscritto”, “marginale”, che “non incide sull’attività dell’amministrazione”, che anzi “è sempre stata nella direzione della lotta alla criminalità”. Bensì ciò che ha fatto, ma che la destra si guarda bene dal rinfacciargli perché lo pratica sempre anch’essa: il trasformismo. Sia il sindaco Decaro sia il presidente Emiliano hanno imbarcato troppi voltagabbana da destra. E, fra gl’imbarcati (in Comune), c’era anche la consigliera finita sotto inchiesta per voto di scambio con i clan. Non sappiamo se sia colpevole o innocente, ma il suo ingresso ha sporcato il Pd e ha ripulito (ove mai fosse possibile) la destra. Almeno mediaticamente. Nei fatti sappiamo bene che il detersivo in grado di ripulire la destra italiana non è stato ancora inventato. Infatti, mentre il capogruppo forzista Gasparri tuona contro le presunte collusioni del Pd, l’inventore del suo partito Marcello Dell’Utri, condannato definitivo per concorso esterno in mafia, si vede sequestrare dal gip di Firenze una decina di milioni non dichiarati dopo la sentenza, in gran parte gentilmente offerti da B. negli anni del suo aureo silenzio. E, mentre il governo di destra cinge d’assedio Bari avviando l’iter per sciogliere il Comune, saltano fuori i video della Procura che immortalano un esponente del clan Parisi mentre compra voti per la consigliera ora indagata quand’era candidata della destra nel 2019 e spiega al compare che “Decaro non dà niente”, mentre “sono quelli (gli avversari di Decaro, ndr) che stanno dando un sacco di soldi… Stanno andando tutti quelli di Bari Vecchia, perché stanno dando i soldi, capito?”.

 

Di qui il Pd pugliese (ma non solo) dovrebbe partire per fare tesoro dello scandalo, finirla con le pratiche consociative, piazzare dei cerberi alle sue porte e abolire le primarie “aperte” ai non iscritti sul candidato sindaco: per evitare nuovi intrusi, stavolta dal basso e non dall’alto, servono meccanismi meno permeabili e più protetti. Ma solo nel Paese di Sottosopra può capitare che il governo di chi ha candidato tutto il peggio possibile, da Dell’Utri a D’Alì, da Cuffaro a Cosentino, e impedì financo il commissariamento del Comune laziale di Fondi, inquinato fin sopra i capelli dai clan, dia lezioni di antimafia a un sindaco sotto scorta per minacce mafiose. Per il centrodestra dei tartufi eredi del berlusconismo, andrebbe un po’ aggiornata la famosa risposta di Alberto Sordi, ballerino in Un americano a Roma, alle pernacchie del troglodita in prima fila: “Ormai hai trent’anni, è ora che tu sappia di chi sei figlio”.

 

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Promemoria

L’editoriale di Marco Travaglio

Promemoria

Breve promemoria per la Meloni e quelli che “Putin non vuole trattare, ma comunque con lui non si tratta perché ha invaso l’Ucraina” (oh bella: bisogna trattare proprio perché l’ha invasa). Zelensky ha vietato i negoziati per decreto. Putin, anche nell’ultimo discorso (tagliuzzato e ribaltato dai media occidentali), ha detto l’opposto: “Negoziare ora solo perché l’Ucraina sta finendo le munizioni e le serve una pausa per rifornirsi di armi, è ridicolo. Ma siamo pronti a un dialogo serio per risolvere tutti i conflitti e le controversie con mezzi pacifici, con garanzie serie per la sicurezza russa”. L’unico modo per sapere se mente è andare a vedere il bluff. Ricordando che due anni fa Putin e Zelensky, dopo vari incontri dei negoziatori in Turchia con Erdogan e l’israeliano Bennett mediatori, avevano accettato un piano di pace in 15 punti, svelato dal Financial Times: Mosca si ritirava dopo tre settimane d’invasione e non toccava Zelensky; Kiev rinunciava alla Nato e alle sue basi militari e sistemi d’arma e dava autonomia al Donbass in cambio di garanzie di sicurezza da Usa, Regno Unito e Nato.

 

15.3.2022, Zelensky: “Ammettiamo che non possiamo entrare nell’Ue e nella Nato”. Biden si mette di traverso dando a Putin del “criminale di guerra”. 17.3, Kiev: “Soluzione possibile, dieci giorni per la pace”. 21.3, Zelensky: “I compromessi Ucraina-Russia saranno decisi da un referendum ucraino. Si possono mettere ai voti le garanzie di sicurezza e lo status dei territori temporaneamente occupati in Donetsk, Lugansk e Crimea”. 22.3, Zelensky invita il Papa a Kiev e lo propone “garante della sicurezza” post-negoziato. 26.3, Biden: “Putin macellaio, non può restare al potere”. 27.3, Zelensky: “Neutralità e accordo su Crimea e Donbass in cambio della pace”. 28.3, Zelensky a giornalisti indipendenti russi: “Lo status neutrale e non nucleare dell’Ucraina siamo pronti ad accettarlo: la Russia ha iniziato la guerra per ottenere questo. Poi servirà discutere e risolvere le questioni di Donbass e Crimea. Ma capisco che è impossibile portare la Russia a ritirarsi da tutti i territori occupati: porterebbe alla terza guerra mondiale”. 5.4, Biden coglie i morti di Bucha al balzo per affossare i negoziati: “Non si tratta con un criminale di guerra che va processato”. Zelensky lo ignora: “Tragedie del genere… ti colpiranno sul polso mentre si fa una o l’altra trattativa. Ma dobbiamo cercare opportunità per compiere questi passi”. 9.4. È il giorno della firma dell’intesa russo-ucraina, che non ci sarà mai: Boris Johnson si precipita a Kiev e minaccia Zelensky: “L’Occidente non sosterrà alcun accordo di pace” (versione Ukrainska Pravda), “Non negoziate e continuate a colpire Putin” (versione Bennett). Mezzo milione di morti fa.

 

 

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Il Campo Carlo

L’editoriale di Marco Travaglio

Il Campo Carlo

Carlo Calenda comunica: “L’asse giallo-verde è vivo e lotta insieme a Putin e Trump”, perché “Salvini ha fatto una dichiarazione di elogio a Putin. Conte non ha ritenuto di dire una parola sulle elezioni russe. Salvini inneggia a Trump, Conte rimpiange i tempi degli endorsement per ‘Giuseppi’. Salvini vota per le armi in Ucraina, ma prova a far passare ordini del giorno contro. Conte non vota l’invio di armi e vuole la resa dell’Ucraina. Salvini ha un accordo con Russia Unita… Conte e Salvini dovrebbero essere isolati e scaricati”. E lui, per scaricarli meglio, fa l’asse centro-verde con Salvini appoggiando il suo candidato in Basilicata, il presidente uscente Vito Bardi. Ma non se n’è neppure accorto, avendo ceduto in franchising la sezione lucana di Azione alla famiglia Pittella. Che purtroppo si è scissa tra il fratello maggiore Gianni e il minore Marcello. Entrambi erano trasmigrati dal Pd ad Azione, ma ora il secondo sta con Bardi (e, si suppone, con Calenda), mentre il primo è contro Bardi (e, si suppone, contro Calenda). Nessuna notizia per ora dei cognati, delle nuore, delle zie e dei cugini. In attesa dell’auspicato ricongiungimento famigliare, Calenda spiega che “su Bardi ho sempre espresso giudizi positivi”. Forse tra sé e sé, o a cena con Pittella (Marcello, non Gianni), perché dall’archivio Ansa non risultano suoi giudizi su Bardi (né positivi né negativi) a memoria d’uomo fino a una settimana fa, quando Carletto scoprì la Basilicata e si mise all’asta fra centrodestra e centrosinistra.

 

Di Bardi parlava invece Donato Pessolano, segretario di Azione in Basilicata (al quale va tutta la solidarietà), e malissimo: essendo all’opposizione, s’era fatto l’idea di doversi opporre a Bardi. Impresa piuttosto agevole, visti i disastri di Bardi. “I numeri – twittava il Pessolano nel giugno 2023 – smentiscono la propaganda di Bardi. La Basilicata soffre, il sistema sanitario regionale ha bisogno di una riforma seria”. E nel ’22, implacabile: “Bardi e la sua giunta non sono in grado di lavorare sui dossier urgenti. O un cambio di passo o si vada subito al voto”; “Dopo i fallimenti della destra di Bardi, è il momento di tornare protagonisti”; “Ricordate lo slogan ‘Prima i lucani’? L’ennesimo bluff della destra di Bardi, Casellati, Salvini e Meloni!”; “L’ultimo posto in classifica di Bardi tra i Presidenti di Regione non è un problema per Bardi, ma della Basilicata tutta”. Calenda non gli aveva spiegato che la vera opposizione si fa appoggiando i governi. E ora è proprio il Pessolano ad annunciare l’appoggio a Bardi che – assicura dopo la cura – “con tante difficoltà in cinque anni non è stato supportato da una squadra adeguata”. Ecco perché combinava solo disastri: gli mancavano Pessolano e Calenda.

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Chi non muore si rivede

L’editoriale di Marco Travaglio

Chi non muore si rivede

La notizia non è che Putin ha vinto le elezioni dopo un testa a testa mozzafiato con se stesso. Ma che l’autocrate è ancora vivo, è saldo al comando, ha più consensi di quando invase l’Ucraina, la Russia esiste ancora, i russi sono contenti per la guerra e l’economia (il sondaggista indipendente Volkov a Repubblica: “I russi stanno col leader per l’economia e per Kiev. Un ruolo importante lo hanno giocato anche l’aumento di salari, pensioni e benefit sociali”). Che strano. Le famose sanzioni non hanno mandato Mosca “in default entro qualche giorno” (Letta, 9.3.’22), né avuto “il massimo impatto in estate” (Draghi, 31.5.’22), né sortito “effetti devastanti” (Gentiloni, 4.6.’22). Eppure gli espertoni erano unanimi. Mario Deaglio: “Il rublo non vale più nulla”. Dario Fabbri: “Comunque vada, il fallimento della Russia è già evidente”. Rep: “Il default russo è a un passo”. Stampa: “Per la Russia è default”. Giornale: “Mosca è in default (ma solo tra un mese)”. La sua “Armata Rotta” che “combatte con pale del 1869” e “le dita al posto delle baionette”, ha “finito i russi”, “le divise”, “le munizioni”, ”i missili” ed estrae “i chip per i carri armati da lavatrici, frigoriferi e addirittura tiralatte elettrici”, passava da una disfatta a una ritirata. E l’Invincibile Armata Kiev-Nato trionfava. Rampini: “È iniziata la disfatta militare russa”. Tocci: “Putin ha perso la guerra”. Ferrara: “Kiev le sta dando di santa ragione al colosso russo”. Riotta: “Putin sconvolto dalla Caporetto dell’esercito”. Molinari: “Putin isolato in un vicolo cieco”.

 

Sempreché fosse ancora vivo. Il dissidente Khodorkovsky alla Cnn: “Putin è impazzito, gli resta un anno o forse tre”. Recalcati (Rep): “Malato? Sofferente? Intaccato dalla morte”. New Lines: “Ha un tumore del sangue”. Daily Telegraph: “Sta morendo di cancro all’intestino”. Proekt, giornale indipendente russo: “Ha un tumore alla tiroide e lo cura facendo il bagno nel sangue estratto da corna mozzate di cervo”. Libero: “Cura il cancro con i clisteri”. Rep: “Il gonfiore del viso, il problema a una gamba, la fatica a muovere un braccio”. Messaggero: “Gonfiore e scatti d’ira da farmaci e steroidi per il tumore”. Stampa: “Demenza senile o Parkinson”. Corriere: “Problemi alla colonna vertebrale per pregressi traumi sportivi, o una neoplasia al midollo spinale compatibile con difficoltà deambulatorie e irrequietezze posturali… down depressivo ed esaltazione maniacale”. Giornale: “Può anche essere diabete”. Messaggero: “Putin è morto? Per Zelensky, ‘non è sicuro che sia ancora vivo’. Quello sugli schermi potrebbe essere una controfigura”. Ora che la cara salma ha rivinto le elezioni con una discreta cera, sorge un dubbio atroce: uno scambio di cartelle cliniche fra la sua e quella di Biden.

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La faccia e la pelle

L’editoriale di Marco Travaglio

La faccia e la pelle

Lo scomposto agitarsi di Macron sempre più Micron sulla guerra la dice lunga sulla statura politica e morale delle cancellerie atlantiste. Che, dopo aver usato il popolo ucraino come carne da cannone per spezzare le reni alla Russia, ora che la Russia le sta spezzando a noi lo usano come carne da macello per le campagne elettorali Ue e Usa. Ma il nanerottolo francese fa storia a sé, perché ha sempre giocato una partita tutta sua sulla pelle degli ucraini. Si crede una via di mezzo fra Napoleone e De Gaulle, cioè il padrone dell’Europa. Nel 2019 decreta la “morte cerebrale della Nato”. E nel 2021, mentre Usa e Nato spingono Putin a invadere l’Ucraina rifiutando l’impegno sulla neutralità che la salverebbe, fa il mediatore. L’8 febbraio 2022 strappa a Zelensky e Putin la promessa di rispettare gli accordi di Minsk per l’autonomia del Donbass (l’altro pomo della discordia). E il 20 febbraio chiama Putin, Biden e Scholz, poi annuncia un vertice fra i primi due. Gli Usa sabotano la mediazione e quattro giorni dopo i russi invadono. Ma lui insiste. Zittisce Biden che dà del “macellaio” a Putin: “Io non l’avrei detto, non si deve alimentare un’escalation di parole e azioni”. E quando Joe accusa lo Zar di “genocidio”, taglia corto: “Parole che non aiutano la pace, anche se le forze russe hanno commesso crimini di guerra”.

Il dialogo gli serve per vincere le elezioni contro la filorussa Le Pen e il pacifista Mélenchon: “Non saremo mai cobelligeranti, serve una de-escalation in Ucraina”, “Non si fa la pace umiliando la Russia”, serve “una via d’uscita dalla guerra senza umiliare la Russia”. È così ben informato da credere che sia la Russia a rischiare l’umiliazione, non l’Ucraina. Nel pellegrinaggio in treno con gli altri due magi Scholz e Draghi, chiede a Zelensky di trattare con Putin. Biden s’inventa un “Armageddon nucleare russo” e lui lo invita alla “prudenza”. Chiede a Mosca e Kiev di accettare la mediazione del Papa. E nel dicembre ’22 annuncia con Biden un’inutile conferenza di pace a Parigi. Poi domanda: “Cosa siamo disposti a fare per dare garanzie di sicurezza alla Russia quando tornerà al tavolo dei negoziati? Uno dei punti essenziali, come ha sempre detto Putin, è il timore che la Nato si avvicini alle sue porte e dispieghi armi che potrebbero minacciare la Russia”. Kiev si infuria: “Vuole fornire garanzie di sicurezza a un terrorista assassino?”. Ora deve aver capito che Putin ha vinto la guerra e il fronte Usa-Ue- Ucraina l’ha persa. Ma non può ammetterlo, almeno fino alle Europee di giugno. E, da pompiere che era, gioca l’altra parte in tragedia: quella del piromane, straparlando di truppe Nato a Kiev. Lui ha il problema di salvare la faccia. Noi, la pelle: quella degli ucraini e anche la nostra.

 

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