Frottole sovraffollate

L’editoriale di Marco Travaglio

Frottole sovraffollate

Come a ogni estate, ecco l’immancabile dibattito sulle carceri sovraffollate e su come sfollarle, col contorno dei soliti sciacalli pronti a legiferare per non farci più entrare chi di solito non le vede neppure col binocolo: i colletti bianchi. L’ultima ideona, firmata dal renziano Giachetti e sposata da FI e Pd, è quella di allargare la già indecente “liberazione anticipata” dagli attuali 3 a 4 mesi per ogni anno di pena. Nella sentenza c’è scritto che devi scontare 9 anni? Tranquillo, è tutto finto: 9 vuol dire 6, ma poi 6 vuol dire 2, perché – grazie alle svuotacarceri dell’ultimo decennio – i 4 finali li sconti ai domiciliari e ai servizi sociali. E’ la certezza della pena all’italiana, che aumenta il senso di impunità e dunque il numero dei reati anziché ridurlo. Così il problema rimane intatto, pronto all’uso strumentale per l’anno successivo. Quello che chiamiamo ‘sovraffollamento’, con tanto di numeri di detenuti in eccesso (14 mila) rispetto ai posti-cella previsti (47 mila), è frutto di un equivoco autolesionista tutto italiano. L’Italia calcola i posti-cella in base alla legge del 1975 che fissa 9 metri quadrati per il primo detenuto e 5 per ciascuno degli altri. Invece il Consiglio d’Europa ne raccomanda almeno 4 per ogni recluso. E la Corte di Strasburgo considera inumano uno spazio pro capite inferiore ai 3. Così un carcere sovraffollato in Italia non lo è nel resto d’Europa.

Ciò non significa che nelle carceri italiane si viva bene, anzi: molte sono un inferno (58 suicidi in 7 mesi). Ma perché sono vecchie, malsane, fatiscenti, poco differenziate per tipo di detenuti, incapaci di farli lavorare, permeabili alla droga, a corto di personale. L’unica soluzione è costruirne di nuove, ma i “garantisti” non ci sentono. Pensano che i detenuti siano “troppi” non si sa in base a cosa, a prescindere, cioè che in carcere ci siano migliaia di persone che non dovrebbero starci. In realtà, rispetto all’unico parametro serio – il numero di reati e di delinquenti – i detenuti sono troppo pochi: se si recuperasse un po’ di efficienza repressiva per risolvere un 5% delle centinaia di migliaia di delitti impunitie un po’ di certezza della pena, le carceri scoppierebbero ben di più. Del resto l’Italia, unico Paese con tre mafie ha un rapporto detenuti-abitanti simile o persino inferiore a nazioni con minori tassi di criminalità. C’è chi parla di un boom causato dalle “politiche securitarie” (ma quali?) del governo Meloni, ma anche questa è una frottola: la destra ha inventato ben 15 nuovi reati, tipo il rave party, ma sono tutte baggianate rimaste lettera morta, senza processi o arresti (a parte l’assurdo dl Caivano, che però ha aumentato di qualche centinaio le presenze nei carceri minorili, non negli ordinari). Forse, per risolvere il problema, bisognerebbe prima capire qual è.

 

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Maestra senza allievi

L’editoriale di Marco Travaglio

Maestra senza allievi

Per carità, rispetto a Biden è un pischello. Ma quando parla di guerre, Sergio Mattarella non pare lucidissimo. Esprime “grande tristezza nel vedere che il mondo getta in armamenti immani risorse finanziarie che andrebbero destinate a fini sociali” (bene, bravo, bis). Poi però, con un arabesco logico da Guinness, ricasca nella solita litania: “L’Italia e i suoi alleati sostenendo l’Ucraina difendono la pace per evitare altre aggressioni a vicini più deboli che porterebbero a una guerra globale”. È la bugia che ci affligge dal 2022, quando Mosca invase l’Ucraina e si disse che la guerra era scoppiata quel giorno perché Putin, impazzito, voleva conquistare l’Europa partendo dal Donbass. Invece è scoppiata nel 2014, col golpe bianco di Euromaidan (fomentato dagli Usa, come confessò Victoria Nuland) per cacciare il legittimo presidente Janukovich e far eleggere il fantoccio Poroshenko che cambiò la Costituzione per aderire alla Nato e prese a bombardare il Donbass russofono. Mattarella, così triste per il riarmo, domanda: “Colpa di chi difende la propria libertà e chi lo aiuta o di chi aggredisce la libertà altrui?”. Ma dimentica le responsabilità occidentali: anche nella Serbia filorussa che, quando lui era vicepremier nel 1999, fu bombardata dalla Nato per 78 giorni e smembrata con l’indipendenza del Kosovo (il diritto all’autodeterminazione vale solo per i nemici di Mosca, quindi non per il Donbass).

Poi scomoda l’“historia magistra vitae” (ma priva di allievi) per un ardito paragone con la II guerra mondiale: “Hitler pretendeva di annettere i Sudeti, la parte di Cecoslovacchia con una minoranza tedesca che Hitler pretendeva di annettere. Gran Bretagna, Francia e Italia, anziché difendere il diritto internazionale, gli diedero via libera. Lui poi occupò l’intera Cecoslovacchia e quando, non incontrando ostacoli, provò con la Polonia scoppiò la guerra mondiale”. Fra le tante cose che la storia non gli ha insegnato – oltre al fatto che Putin non è Hitler, non ha la Wehrmacht ma un esercito al confronto modestissimo e, se provasse a invadere l’Europa, si ritroverebbe contro l’intera Nato – c’è che contro Hitler si mossero Usa, Uk e Russia. Contro Putin c’è il fu esercito ucraino, che ha perso la guerra. E ora Zelensky e Kuleba invocano negoziati coi russi. Ma, come già nel 2022, dopo aver ripetuto per due anni e mezzo che la pace la decide l’Ucraina, l’Europa sabota i negoziati incitandola a farsi massacrare ancora. Ecco il generale Roly Walker, capo di stato maggiore britannico, in stereo con Mattarella e con l’Ue: “Dobbiamo prepararci a combattere con la Russia entro tre anni”. Quindi o ha saputo che Putin prepara lo sbarco oltre la Manica, o anche a lui servono ripetizioni di storia.

 

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Garantisti in mutande

L’editoriale di Marco Travaglio

Garantisti in mutande

Secondo una leggenda molto in voga, i politici si dividono in due categorie: i “populisti” e “giustizialisti”, dunque brutti; e i “riformisti” e “garantisti”, dunque belli, tipo Tajani, Calenda, Bonino, Renzi e simili sfollagente. Una prova? Nel 2015 il premier Renzi, mentre prepara un colpo di spugna sulla frode fiscale (che salva tanti suoi amici, tra cui B., e salta solo grazie a uno scoop di Libero e del Fatto), dichiara guerra alla vera piaga del Paese: i “furbetti del cartellino”, precursori dei famigerati “divanisti del reddito di cittadinanza”. Il 22 ottobre 2015 la Guardia di Finanza inscena una retata al Comune di Sanremo: 35 arresti domiciliari, 8 obblighi di firma, 196 indagati. Fra gli arrestati c’è Alberto Muraglia, vigile urbano responsabile dei controlli al mercato ortofrutticolo, immortalato da una telecamera mentre striscia il badge in t-shirt e slip. Lui spiega che si sveglia ogni mattina alle 5 e non è mai mancato al lavoro, ma alcune volte gli è capitato di scendere a timbrare in déshabillé prima o dopo aver lavorato, visto che abita dentro il mercato. Niente da fare. Renzi si avventa su quella foto che fa il giro del mondo e, da buon garantista, tuona: “Questa è gente da licenziare in 48 ore”. Poi, siccome è pure “riformista”, spara la riforma alla velocità della luce: un decreto del gennaio 2016, affidato a quell’altro genio della Madia. Renzi lo spiega così: “Decreto cattivo, ma giusto. Chi finge, timbra e scappa dev’essere sanzionato perché distrugge la credibilità della PA. Non li chiamerei fannulloni, ma truffatori. Abbiamo visto cose pazzesche, come a Sanremo dove c’era chi timbrava in mutande. Serve il pugno di ferro: chi si comporta così va licenziato entro 48 ore”. Ovviamente senza processo, come da manuale del garantismo riformista.

Arrestato, sputtanato e licenziato con altri 32, Muraglia mantiene la famiglia aprendo una botteguccia. Intanto ricorre al tribunale del lavoro e attende il processo penale, dove purtroppo non si decide in 48 ore. Ma per tutti è “il furbetto fannullone che timbra in mutande”. Per lui i tre gradi di giudizio e la presunzione di non colpevolezza fino in Cassazione non valgono: mica si chiama B., Santanchè, Sgarbi, Toti, Brugnaro, Renzi (babbo o figlio, a scelta). Nel 2020 il gup lo assolve con “rito abbreviato” (sono passati solo 5 anni, sennò sarebbe “allungato”), come quasi tutte le migliaia di “furbetti del Rdc” nell’ultimo triennio. E il giudice del lavoro lo reintegra, ma lui non torna in servizio, anche perché il Comune impugna la sentenza fino alla Cassazione. Che l’altro giorno, 9 anni dopo, ha dato ragione a lui e condannato il Comune a versargli almeno 227 mila euro di arretrati. Però Muraglia è un uomo fortunato: pensate se avesse incontrato un premier populista e giustizialista.

 

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Trasporti: si fa per dire

L’editoriale di Marco Travaglio

Trasporti: si fa per dire

Ormai non passa giorno senza una quantità inimmaginabile di treni e aerei in ritardo mostruoso. Tant’è che, a fare scandalo, sono quelli misteriosamente in orario. Ieri, all’aeroporto di Cagliari, l’impiegata del banco Ita mi ha annunciato commossa che il mio volo per Roma delle 15.10 portava “solo 25 minuti di ritardo”. Quindi era in anticipo. Neppure il tempo di raggiungere il gate e già la partenza era slittata alle 16.15. Il che vuol dire alle 17, ma quei 45 minuti diventano un dettaglio indegno di essere comunicato. Alle 16.30 noi mandria umana con aria rassegnata abbiamo iniziato a sfilare verso il finger, che però non finiva nell’aereo, ma in una scala da scendere senz’aria condizionata e otturata all’uscita. L’uno sull’altro, seduti sui gradini a bollire a 35 gradi. Poi finalmente ci han fatti uscire sulla pista, ma solo per arrostire un altro po’ sotto il sole. Al via libera, tutti in marcia verso l’aereo: una cella frigorifera a temperatura polare. Chiuso il portellone, il velivolo è rimasto immobile sulla pista a motori accesi. Gli ostaggi, sottomessi anche per il trattamento bollitura-grigliatura-surgelamento, raccoglievano le forze residue per chiedere spiegazioni, quando l’altoparlante ha diramato l’ordinaria supercazzola aviatoria: “Ci scusiamo per il ritardo, dovuto a ritardato arrivo dell’aeromobile” (mai che dicano perché l’aeromobile ha ritardato). È la più classica delle varianti dello scusario. Poi c’è l’“attesa dell’aereo programmato” o, se l’aereo programmato era lì in bella vista da ore, i più vaghi “problemi operativi” e il più preciso “ritardo dell’equipaggio in transito da un altro volo” (da evitare quando l’equipaggio è lì da ore che fa le ragnatele con te).

Restava da capire perché, giunti il velivolo e l’equipaggio, il decollo tardasse. Ed ecco la supercazzola subordinata del primo tipo: “L’autorizzazione al decollo arriverà solo fra 7 minuti per ritardo nell’autorizzazione alla partenza, comune a tutti i velivoli sulla pista” (siamo in ritardo perché siamo in ritardo, ma consolatevi: lo sono pure gli altri, non ce l’abbiamo con voi). Subito seguìta, visti gli sguardi sbalorditi dei prigionieri, da quella del secondo tipo: il “traffico elevato nei cieli di Roma per la presenza di troppi aeromobili”. Ma tu guarda: oggi i romani si sono messi d’accordo e, anziché la classica utilitaria, o motorino, o bicicletta, han tirato fuori dal garage il loro bimotore o cacciabombardiere personale e sono decollati tutti insieme. L’alternativa è che c’entri il ministro dei Trasporti, tale Matteo Salvini, che può essere accusato di assenteismo solo da chi ignora di cosa sarebbe capace se fosse presente al ministero. Ove mai si mettesse a lavorare, toccherebbe aggiornare lo scusario: “Ritardo dovuto al regolare arrivo del ministro”.

 

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Chi ripudia la pace

L’editoriale di Marco Travaglio

Chi ripudia la pace

È vero che in Italia la situazione è sempre più grave e sempre meno seria, infatti le alleanze d’opposizione si fanno a suon di abbracci alla Partita del Cuore. Ma ciò che ha scritto ieri Barbara Spinelli sul Fatto merita una risposta da qualcuno. Il governo italiano ha sempre escluso, per bocca della premier Meloni e dei ministri Crosetto e Tajani, che l’Ucraina possa usare le nostre armi per colpire in territorio russo: altrimenti saremmo anche formalmente in guerra con la Russia in palese violazione della Costituzione. Eppure due partiti della maggioranza su tre, FdI e FI, il 17 luglio hanno votato la prima risoluzione del nuovo Parlamento europeo che “sostiene formalmente l’eliminazione delle restrizioni all’uso dei sistemi di armi occidentali forniti all’Ucraina contro obiettivi militari su territorio russo” e si oppone a qualsiasi negoziato di pace o almeno di tregua: infatti non lo nomina mai, scomunica Orbán che lo sta tentando e ripete l’impegno ad armare Kiev fino alla “vittoria dell’Ucraina”. Come mai meloniani e forzisti in Italia dicono una cosa e in Europa votano il contrario? Anche Elly Schlein, il 29 maggio, aveva opposto un fermo no “sull’ipotesi di togliere le restrizioni all’uso delle armi fornite dagli europei all’Ucraina per colpire obiettivi in Russia: la linea di politica estera del Pd è questa”. Ma tutti i suoi eurodeputati, salvo Strada e Tarquinio (astenuti), han votato la risoluzione che dice l’esatto opposto. Quindi la politica estera del Pd è cambiata nel giro di un mese e mezzo all’insaputa degli elettori? O il Pd ha una linea a Roma e un’altra a Bruxelles? O la Schlein non controlla il suo partito, dove – come nella Casa delle Libertà di Guzzanti – “ognuno fa come cazzo gli pare”?

La dichiarazione di guerra alla Russia cade proprio mentre Zelensky scavalca tutti a sinistra in due mosse: annuncia di voler negoziare con Mosca e ne parla al telefono con Trump (roba che in Italia e in Europa porta dritto e filato alle accuse di putinismo, orbanismo, sovranismo e trumpismo). Quindi il Parlamento europeo e i nostri maggiori partiti di governo e di opposizione intendono sabotare l’Ucraina che dicono di aiutare? La prima a dover rispondere è proprio la Schlein, visto che il Pd ha pure votato (con FI e Verdi) la von Sturmtruppen, osteggiata saggiamente da 5Stelle, SI, FdI e Lega. Non contento, il Pd ha intimato alla Meloni di spiegare al Parlamento (italiano) il suo no alla von Sturmtruppen, casomai avesse finalmente cambiato idea per l’effetto Trump sul bellicismo atlantoide senza se e senza ma seguito fin qui. La domanda è semplice: il Pd si riconosce nell’articolo 11 della “Costituzione più bella del mondo”, oppure ha deciso all’insaputa dei più di ripudiare la pace anziché la guerra?

 

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Riposi in pace

L’editoriale di Marco Travaglio

Riposi in pace

Dopo le buffonate innocentiste su Rosa e Olindo, Chico Forti e Bossetti, non poteva mancare un grande classico dell’estate: l’ennesima riapertura del cosiddetto “caso Pantani” nel tentativo di dimostrare, a dispetto dei fatti, che anche lui fu vittima della giustizia, penale e sportiva, e riabilitarlo come campione senza macchia. Può darsi che il pm di Trento non potesse ignorare le “rivelazioni” raccolte dalla commissione Antimafia, impegnata a perder tempo sugli interessi della camorra nel totonero sul Giro d’Italia del 1999 (tutto prescritto, salvo omicidi). Sta di fatto che ha riascoltato il bandito Vallanzasca su presunte confidenze origliate in carcere. Le stesse che avevano indotto già 10 anni fa la Procura di Trento e poi quella di Forlì a riaprire il caso e ad archiviarlo.

Il sospetto è sempre quello: la camorra, per non pagare troppi soldi agli scommettitori, avrebbe truccato i test antidoping a Madonna di Campiglio per eliminare il Pirata, maglia rosa a due tappe dalla fine, per il famoso ematocrito (quantità di globuli rossi nel sangue) del 51,9%. Nessuno ha mai capito che bisogno ci fosse di scambiare o riscaldare le provette di Pantani, che in quegli anni, come molti, era sempre dopato fino al midollo. E come abbia potuto la congiura reggere per 25 anni, con decine di persone coinvolte, fra cui fior di primari di ematologia. Nella stanza del prelievo, all’hotel Turing di Campiglio, c’erano 7 testimoni; la fiala fu portata al medico e analizzata con quelle di altri 9 corridori davanti a 4 persone; l’ematocrito di Pantani risultò “fuori norma”; la macchina fu ritarata per un secondo test: stesso esito; furono convocati il direttore sportivo e il medico della Mercatone Uno e assistettero ad altri due controlli: identico risultato. Campione ematico e materiale analitico furono subito sequestrati dalla GdF che li periziò per la Procura di Trento: tutto regolare. Poi Pantani fu processato a Forlì per altri due ematocriti abnormi, riscontrati nei ricoveri per due incidenti nel 1995: 57% a Rimini e addirittura 60.1 a Torino, a dispetto di una media dichiarata di 45. Condannato per frode sportiva, Pantani fu assolto in appello: non perché non fosse dopato, anzi, ma per un buco nella vecchia legge sull’illecito sportivo, applicabile a dirigenti e medici che “dopano” l’atleta, ma non al suo “autodoping” (punibile solo dal 2000: nel ’95 “il fatto non era reato”). Nel 2013 una commissione di inchiesta del Senato francese svelò i ciclisti dopati al Tour del ’98, fra cui i primi tre: Pantani, Ullrich e Julich. Ma nessuno revocò loro i titoli sportivi. Dieci anni fa Stefano Garzelli, storico gregario del Pirata, commentò così la penultima riapertura: “Lasciamo che Marco riposi in pace”. Sarebbe il caso di dargli ascolto.

 

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Basta un No

L’editoriale di Marco Travaglio

Basta un No

Se fossimo Giorgia Meloni, avremmo votato come FdI: contro Ursula von der Leyen, eletta col voto determinante dei Verdi, che per le destre sono fumo negli occhi molto più dei Socialisti. Se fossimo Elly Schlein, avremmo votato all’opposto del Pd: contro Ursula von der Leyen, che dopo le importanti aperture del 2019-20 sui temi sociali e ambientali fino al Recovery, si è coperta di vergogna con i traffici pro Big Pharma sui vaccini (appena sanzionati dalla Corte europea) e l’asservimento all’altra mega-lobby mondiale, quella delle armi. Ora i giornaloni che, come i poveri Tajani e Di Maio, imploravano la Meloni di suicidarsi aggiungendo i suoi voti superflui all’ammucchiata Ppe-Pse-Renew-Verdi versano lacrime amare perché l’Italia sarebbe “isolata in Europa”. Tutte balle: l’isolamento o meno dell’Italia non dipende dai voti (per giunta ininfluenti) di FdI a Ursula; semmai dal peso della nostra economia e dalle mosse del governo. Nella finta democrazia Ue, parlamento e governo non funzionano come negli Stati: dopo la prima fiducia al presidente, la Commissione non è vincolata a una maggioranza prefabbricata, che anzi muta su ciascun dossier. Ma, usi a guardare il mondo con gli occhi dei padroni anziché degli elettori, i signorini grandi firme ignorano che il popolo meloniano – allergico alle ammucchiate e già costretto da due anni a ingoiare retromarce su tutto – avrebbe rigettato un voto a braccetto con Pd e Verdi. Quindi Meloni ha fatto bene a votare No come leader di FdI. Ma anche come premier. La von Sturmtruppen, tanto più dopo l’orrendo discorso di ieri – bellicista su Kiev, omissivo su Gaza, indifferente su povertà, diseguaglianze ed equità fiscale, ipocrita sul green e i migranti – è quanto di peggio potesse capitare a un’Europa che ha appena votato per un cambiamento radicale e si ritrova le stesse presidenti del Parlamento (Metsola) e della Commissione (von der Leyen). Un bel messaggio agli astenuti, già convinti che sia inutile votare nei loro Paesi e ancor di più in Europa.

La Meloni ha atteso il Sì dei Verdi per annunciare il No. Invece Pd e Verdi avevano già deciso il Sì, senza sapere se sarebbe arrivato quello di FdI: digeriscono anche i sassi, come han dimostrato l’altroieri approvando con FdI e FI la risoluzione che incita Kiev a usare le nostre armi per bombardare la Russia. Per questo sarebbe esiziale, per l’opposizione, un matrimonio indissolubile fra Pd, 5Stelle, Verdi, centrini e sinistre varie. Più si allarga l’ammucchiata in Italia e in Europa, più le destre tornano alle origini, più c’è bisogno di forze non omologate al finto bipolarismo del partito unico bellicista e lobbista: come M5S, mezza Avs e chiunque conservi la forza, il coraggio e la libertà di dire No a questo schifo.

 

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Politici sotto spirito

L’editoriale di Marco Travaglio

Politici sotto spirito

Dopo aver detto “Non posso criticare né commentare l’ordinanza del Riesame” che ha confermato i domiciliari a Toti, il cosiddetto ministro della Giustizia Nordio l’ha commentata e anche criticata: “L’ho letta con grande attenzione e non ho capito nulla”. Se avesse anche precisato a che ora l’ha letta, si potrebbe capire perché non l’ha capita, visto che Carletto Mezzolitro, qualche sera fa nella masseria di Vespa, si era abbandonato a copiose libagioni per concludere con voce impastata: “Il vino potrebbe essere un buon alibi per le eventuali sciocchezze che potessi dire”. Purtroppo il tasso alcolico non è mai un alibi, semmai una aggravante, come ben sa chi guida in stato di ebbrezza e prova a giustificarsi per evitare la sanzione: “Vede, agente, non ho pensato di chiamare un taxi perché ero ubriaco”. Un po’ come quel tale che, dopo aver ammazzato entrambi i genitori, invocò la clemenza della corte: “Abbiate pietà di un povero orfano”. Ma dicevamo del ministro sotto spirito che non ha capito l’ordinanza su Toti. Voi direte: quindi eviterà di commentarla. Invece no. Non l’ha capita, ma la commenta: “Siamo convinti (parla sempre a nome dell’intera osteria, ndr) che nessuna inchiesta deve condizionare la legittimità di una carica politica o amministrativa determinata dalla volontà popolare”. Quindi, par di capire a noi astemi, non si arrestano i politici e gli amministratori eletti dal popolo. Il che è strano, detto da chi proprio dieci anni fa, procuratore aggiunto a Venezia, chiese e ottenne l’arresto del sindaco di Venezia Orsoni, del senatore Galan (ex presidente del Veneto ed ex ministro) e di un battaglione di altri politici e amministratori per le tangenti sul Mose. Delle due l’una: o ha cambiato idea, o anche da magistrato non capiva ciò che leggeva e soprattutto ciò che firmava, almeno da una cert’ora in poi.

Neppure Lollobrigida aveva mai pensato di giustificare col tasso alcolico le sue minchiate, magari aggiungendo la Sovranità enologica a quella alimentare che impreziosisce il suo ministero. Ma, ora che l’alibi è sdoganato, può valere per tutti. Anche per Elly Schlein che si fa fotografare abbracciata a Renzi alla Partita del Cuore (a proposito: e l’antidoping?). O per gli eurodeputati del Pd che ieri, per opporsi meglio all’uso di armi Nato da parte dell’Ucraina per bombardare la Russia, han votato compatti (tranne due) con FdI e FI la risoluzione che autorizza l’Ucraina a bombardare la Russia con armi Nato. Nel voto separato sul via libera agli attacchi in terra russa, gli unici a non votare No nel gruppo Left sono stati Mimmo Lucano e Ilaria Salis, astenuti. Ma, almeno per loro, sarebbe inutile invocare lo stato di ebbrezza: pare che non abbiano capito cosa votavano e, avendoli sentiti parlare qualche volta, non fatichiamo a crederlo.

 

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La fiction democratica

L’editoriale di Marco Travaglio

La fiction democratica

Ma i rappresentanti delle nostre democrazie credono nella democrazia? Cioè in quel sistema complicato e faticoso – molto più delle autocrazie, delle oligarchie e delle aristocrazie – dove il sovrano è il popolo, che decide chi deve governare e cosa deve fare, insomma dove gli eletti sono dipendenti degli elettori e non viceversa? No, perché se ci credono dovrebbero dimostrarlo almeno ogni tanto. Se invece, come pare da ciò che dicono e soprattutto fanno, non ci credono, aboliscano il suffragio universale e ripristinino il voto per censo, per titolo di studio, per tessera riservato a chi vota per loro. E la facciano finita con questa fiction. Dagli ultimi sondaggi, e anche dai penultimi, pare che la maggioranza degli americani rivoglia Trump: a qualcuno piace, a molti dispiace, ma la prima regola della democrazia dice che i Democratici devono usare tutti i mezzi leciti per batterlo; se invece perdono, devono andarsene all’opposizione e intanto trovarsi un leader vero, ma soprattutto vivo. Senza strillare ogni due per tre al fascismo e alla fine della democrazia, che sarebbe proprio ciò che hanno in mente loro: impedire a chi vince le elezioni di governare e attuare il suo programma.

Idem per la Francia. Se il popolo boccia Macron tre volte in un mese per premiare due volte la Le Pen e la terza (dopo i magheggi delle desistenze) Mélenchon, cosa c’è di democratico nei traffici del piccolo Napoleone per impapocchiare un governo senza Le Pen né Mélenchon, cioè contro il 65% degli elettori? In Italia la Meloni ha vinto le elezioni perché Fratelli d’Italia, fin dalla nascita nel 2013, si era opposto a tutti i governi dall’ammucchiata Letta all’ammucchiata Draghi: quindi l’hanno votata per avere massima discontinuità. Ora la premier è lodata ogni volta che tradisce le attese e le promesse per allinearsi all’establishment nazionale e internazionale (cioè sempre); e minacciata – anche con ricatti sui conti pubblici – non appena accenna a qualche timida deviazione: tipo la tentazione di non votare per Ursula von Sturmtruppen e di sottrarsi all’euro-ammucchiata Ppe, Pse, Lib-dem, Verdi e – sperano lorsignori – pure Ecr. Cioè: l’euroscettica che ha vinto urlando a questa Ue che “la pacchia è finita” dovrebbe allungarle la pacchia, prendendo in giro gli elettori per lasciare tutto com’è. Parliamo dell’Ue che scomunica e sanziona il suo presidente di turno Orbán perché incontra Zelensky e Putin per farli negoziare e l’indomani scopre che pure Zelensky vuole negoziare con Putin. Ma perché un cittadino dovrebbe votare se tutti s’impegnano a convincerlo che, passata la festa, a decidere è sempre quell’invisibile pilota automatico che trasforma ogni voto di cambiamento nella più bieca restaurazione?

 

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Benvenuti fra noi

L’editoriale di Marco Travaglio

Benvenuti fra noi

Oltre all’orecchio destro di Trump e a quel che resta di Biden e del suo Secret Service, il proiettile esploso sabato sera da Thomas Matthew Crooks ha colpito anche Zelensky. Che ieri, tomo tomo cacchio cacchio, appena riavutosi dallo choc, ha dichiarato con l’aria di dire la cosa più logica del mondo (quale effettivamente è) che, al summit autunnale di pace, “dovranno esserci anche rappresentanti russi”. Prima o poi, ne pronuncerà anche il nome (non è difficile: Vladimir Putin) e revocherà il suo decreto del 4 ottobre 2022 che proibisce a tutti gli ucraini, cioè anche a lui, di negoziare con i russi. In attesa che qualche atlantoide nostrano dia anche a lui del putiniano, non basta una Treccani per raccogliere gli insulti, le calunnie, le gogne, gli ostracismi subìti da chi osa dire la stessa cosa da due anni e mezzo: la guerra fra Russia e Ucraina si chiude solo con un negoziato fra Russia e Ucraina con i rispettivi alleati (Cina e Brics, Usa e Nato). L’avevano capito le stesse Russia e Ucraina già nel marzo 2022, cioè 28 mesi e centinaia di migliaia di morti fa, quando si accordarono con la mediazione di Erdogan e Bennet. Poi gli oltranzisti Nato paracadutarono Boris Johnson su Kiev per intimare a Zelensky di non firmare e di far massacrare il suo popolo per sconfiggere la Russia. Un’idea paranoica che era già costata cara a Napoleone e a Hitler. E ora ha condannato a morte l’Ucraina, precipitata da 44 a 28 milioni di abitanti, semidistrutta nelle infrastrutture, decimata nei suoi giovani, ancor più fallita economicamente e ora anche militarmente. Ma ha devastato anche l’Europa con le sanzioni che dovevano abbattere il sanzionato Putin e hanno rovinato i sanzionatori. E ha trascinato la Nato nell’ennesima sconfitta, come se non bastassero i disastri nei Balcani, in Libia, in Niger e dintorni e la fuga ignominiosa da Kabul.

Intanto Putin, che dovevamo isolare, ci ha isolati con tutti i Brics presenti e futuri. E assiste sadicamente alla disgrazia dei leader che puntavano sulla sua e cadono come birilli: Johnson, Truss, Sunak, Draghi, Letta, Marin, Morawiecki, Macron, Scholz, Biden… Resta da capire se potrà essere Zelensky, lo sconfitto, a convocare i negoziati dopo averli irrisi per due anni, o se l’Ucraina dovrà trovarsi un rappresentante più credibile per la nuova parte in commedia, anzi in tragedia. E si vedrà se Putin, il vincitore, aderirà al vertice autunnale o attenderà il 20 gennaio, quando la Casa Bianca avrà un nuovo inquilino che gli pare tanto di conoscere. Di certo nessuno chiederà un parere ai cani da riporto e da compagnia della cosiddetta Europa, che infatti, diversamente da Zelensky, non hanno ancora neppure sentito gli spari di Butler. Magari qualcuno li avviserà poi a cose fatte, come si addice alla servitù.

 

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