Torino-Bari sola andata

 

L’editoriale di Marco Travaglio

Torino-Bari sola andata

Nel 2003, in un lampo di sincerità, Massimo D’Alema disse all’Espresso: “La sinistra di per sé è un male. Soltanto l’esistenza della destra rende questo male sopportabile”. E non aveva ancora visto il Pd, fondato (ma mai nato) nel 2007 dai residuati bellici del Pci-Psi-Pds-Ds e della sinistra Dc-Ppi-Margherita. L’ultima retata in Piemonte parla da sé: Roberto Fantini, garante regionale della legalità in quota Pd ed ex manager autostradale Sitaf, arrestato per concorso esterno in mafia; e Salvatore “Sasà” Gallo, 85 anni, ex ras della Sitaf, craxiano e poi fassiniano, indagato per corruzione elettorale ed estorsione. Gallo è stato intercettato mentre compra voti e tessere con minacce, favori, assunzioni, nomine, cambi d’uso di terreni, bus e cassonetti ad personam fino alle elezioni del 2021, quando Lo Russo divenne sindaco al posto della Appendino e “Sasà” piazzò tre dei suoi in Comune e cinque nelle circoscrizioni col Pd, che ora candida suo figlio Raffaele capolista alle Regionali.

 

Il fatto che questo non-partito di non-idee, sommatoria di sultanati votati al potere per il potere, sopravviva da 17 anni passando da Veltroni a Franceschini a Bersani a Epifani a Renzi a Orfini a ri-Renzi a Martina a Zingaretti a Letta a Schlein, riuscendo a governare con B., Lega e 5Stelle senza mai vincere un’elezione né muovere una foglia sui territori spiega bene perché galleggi sempre fra il 17 e il 21%: dall’altra parte c’è una destra ancor più indecente; e la manutenzione del potere senza mai una scelta netta accontenta più gente possibile e ne scontenta il meno possibile. Il resto lo fanno l’abitudine (c’è ancora chi crede di votare per Berlinguer); l’appoggio dei poteri finanziari e dei loro media; e i voti scambiati e controllati. Non solo in Puglia e Piemonte: in quasi tutte le regioni. È un bel guaio per Schlein, ma ancor più per i suoi alleati. Ti allei con lei e ti ritrovi Gallo in Piemonte, i capi-coop in Lombardia, Toscana ed Emilia Romagna, i Ruberti-boy in Lazio, D’Alfonso in Abruzzo, i De Luca in Campania, Maurodinoia & C. in Puglia, l’andreottiano Chiorazzo in Lucania, le solite famiglie in Calabria ecc. Elly aveva giurato di cacciarli, ma c’è sempre un’elezione che rende i cacicchi indispensabili e il repulisti rinviabile all’anno del mai. Ora i giornali raccontano gli scandali di Torino e Bari nelle pagine dispari e in quelle pari si domandano perché l’Appendino a Torino e Conte a Bari stiano alla larga dai dem: slealtà? tradimento? egemonismo? La risposta è nelle pagine dispari: chi va col Pd rischia di sporcarsi e tocca a Elly dargli un valido motivo per farlo senza insozzarsi. Ci si può pure alleare e coprire di fango, ma poi gli elettori non controllati e non mitridatizzati se ne stanno a casa.

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Colpa d’Alfredo

L’editoriale di Marco Travaglio

Colpa d’Alfredo

È da quando si chiamava ancora Pds e sinistra Dc che il Pd trova sempre il modo di battere il mea culpa sul petto degli altri. Invece di tagliare una volta per tutte il nodo politica&affari, che tanti suoi compagnucci ha portato in tribunale e nella vergogna, il centrosinistra riesce sempre a inventarsi una scusa per scaricare barile. Passa da uno scandalo all’altro e, per non cambiare prassi e classi dirigenti, cambia un segretario a biennio. In Tangentopoli era colpa delle mele marce all’insaputa del partito (tipo Greganti, per chi ci credeva). Dopo, dei pm giustizialisti e allergici al “primato della politica” (lo dicevano pure i pidiessini ben nascosti dietro B.). E comunque la destra era molto peggio, quindi toccava tenersi i meno peggio. Quando i 5Stelle posero fine al finto bipolarismo destra-sinistra, il rosso e il nero sulla roulette truccata dove vinceva sempre il banco, i progressisti votarono i barbari grillini. Apriti cielo: antipolitici, fascisti, qualunquisti. Intanto, con Renzi, il Pd era diventato la copia sfigata di FI, imbarcando di tutto, abolendo l’articolo 18, scassinando la Costituzione, occupando la Rai, votando contro il Reddito, la Spazzacorrotti, il dl Dignità. Ogni primaria, locale e nazionale, era impreziosita da banchieri, riccastri e file di cinesi e magrebini reclutati un tanto al chilo dai capibastone: però vuoi mettere l’unico partito veramente democratico che fa decidere gli elettori. Vinceva sempre il casinò, almeno fino a un anno fa, quando gli elettori ribaltarono il Risiko dei capicorrente e scelsero Elly Schlein per cambiare davvero.

Il Pd poteva fare finalmente pulizia del marciume, invece i Gattopardi usarono l’ingenua segretaria per l’ultimo gioco di prestigio: fingere di cambiare tutto per cambiare solo lei. Tanto c’era il nuovo babau – il fascismo alle porte – da sventolare per occultare le magagne di casa con l’aiuto dei giornaloni, che danno sempre la colpa a Conte: perché è morto, perché non è morto, per la pochette, per il dolcevita, perché non vuole il campo largo, perché lo vuole ma aspira financo ad arrivare primo. Ora, con due retate in due settimane a Bari, il Pd è nudo: a furia di inglobare pezzi di destra in Regione con Emiliano e in Comune con Decaro (gli Scilipoti sono brutti solo se fanno il percorso inverso), s’è messo in casa i cavalli di troia che hanno portato voti sporchi e comprati. Comodi per vincere le elezioni, scomodi quando un pm li scopre. E di chi è la colpa? Del Pd locale e nazionale (Boccia, fedelissimo di Elly, viene di lì) che lorda chiunque ci si allei? No, di Conte che diserta le primarie per evitare altri mercati delle vacche, mentre il Pd non trova di meglio che il capo di gabinetto di Decaro. Come se il Pd non fosse la malattia, ma la cura. Fino alla prossima retata.

 

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Il Pirlerato

L’editoriale di Marco Travaglio

Il Pirlerato

Sì, lo so: le riforme istituzionali sono pallose. Ma Maria Elisabetta Alberti Casellati Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare, che è un po’ la Boschi della Meloni, e il suo trust di cervelli sfornano ogni giorno un nuovo modello di premierato che è meglio di un copione di cabaret. L’ultima versione, a furia di tagliare, appiccicare, limare e pastrocchiare, è una farsa travolgente.

Atto I: tre schede e due premier. “Le elezioni delle Camere e del Presidente del Consiglio hanno luogo contestualmente”. Cioè, al seggio, ci daranno tre schede (Camera, Senato e premier). Poniamo che i grandi partiti non si coalizzino e candidino ciascuno il suo leader a premier. Un elettore del Nord che si sente un po’ leghista e un po’ forzista, alla Camera voterà Lega, al Senato FI e come premier preferirà Meloni a Salvini e Tajani. Idem, dall’altra, un progressista pacifista: alla Camera voterà Pd o Santoro, al Senato M5S o Avs e Conte premier perché ha più esperienza. Risultato: il premier più votato, Meloni o Conte che sia, potrebbe avere la maggioranza in una Camera e non nell’altra (avremmo due premier eletti, che si sfiderebbero a pari e dispari), o in nessuna delle due (uno o due premier eletti senza maggioranza per governare).

 

Atto II: norma anti-ribaltoni, cioè pro. Il premier eletto, se la maggioranza gli nega la fiducia su uno o più provvedimenti, ha quattro opzioni. 1) Non dimettersi (anche se la Costituzione lo obbliga a farlo) e restare lì senza maggioranza a girarsi i pollici mentre il Parlamento gli boccia tutto. 2) Dimettersi e “proporre” lo scioglimento delle Camere. 3) Dimettersi e fare la “staffetta”, cioè passare il testimone a un altro premier con la stessa maggioranza (mini-ribaltone). 4) Dare le “dimissioni volontarie” al Quirinale e farsi dare un nuovo incarico per governare con una maggioranza diversa da quella che lo sosteneva alle urne (maxi-ribaltone). Ergo la norma anti-ribaltoni produce più ribaltoni di prima.

Atto III: premier morto e risorto. “Nei casi di morte, impedimento permanente, decadenza, il presidente della Repubblica può conferire, per una sola volta nel corso della legislatura, l’incarico di formare il governo al presidente del Consiglio dimissionario o a un altro parlamentare” collegato. Giusta preoccupazione: che si fa se il premier non può più fare il premier perché decaduto per una condanna in base alla Severino, o in coma vegetativo, o morto? Il capo dello Stato può sostituirlo una sola volta, oppure reincaricare il premier pregiudicato (graziandolo), o vegetale (facendolo uscire dal coma con la sola imposizione delle mani), o cadavere (resuscitandolo con un perentorio: “Lazzaro, alzati e cammina!”). Non so voi, ma io al referendum sono tentatissimo di votare Sì.

 

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Vieni avanti, aretina

L’editoriale di Marco Travaglio

Vieni avanti, aretina

Temendo erroneamente di poter essere screditata più di quanto già non sia, Maria Elena Boschi s’è adontata perché abbiamo riferito la sua proposta in Vigilanza. Sperava che nessuno se ne accorgesse, e va capita. L’ideona è applicare la par condicio – la legge che regola le presenze di politici in tv nelle campagne elettorali – ai giornalisti. Quelli con “una chiara connotazione politica” non potranno più parlare, a meno che non siano sottoposti a “contraddittorio”. Se nelle giornate piovose uno dice che piove, un altro dovrà dire che c’è sole. Se uno afferma che la Libia è in Africa, ce ne vorrà uno che la situi in Oceania. Tutto nasce dal suo acuto concetto di ”imparzialità” e “terzietà”, che lei confonde con assenza di pensieri: infatti si sente imparzialissima. Inutile citarle l’art. 21 della Costituzione (“Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero…”): vale solo per chi pensa. In attesa di scoprire chi decide i giornalisti “schierati” da cacciare, proviamo a indovinare gli “imparziali” prediletti della deputata etrusca.

1. L’ex direttore del Riformista M.R., noto giornalista sulla cui terzietà garantisce bin Salman.

2. Silvia Toffanin, che a Verissimo torchiò Maria Etruria e il fidanzato: “Possiamo darci del tu?”, “Sembrate due sposi!”, “Mamma mia, tu sei bellissimo, ma a te l’amore t’ha fatta ancor più bella!”.

3. I feroci segugi di Chi che le rubarono ottanta foto posate e quelli di Oggi che le piallarono la cellulite su un lido della Versilia.

 

4. Bruno Vespa, autore di ritratti imparziali a tutta lingua: “La bella avvocata toscana una vita privata non ce l’ha da quando Renzi la portò al governo… Maria Elena Boschi somiglia sempre di più alle nobildonne rinascimentali che lasciano beni e affetti perché rapite da una vocazione religiosa. Una Santa Teresa d’Avila che, scolpita dal Bernini per Santa Maria della Vittoria, acquista sensualità nel momento in cui la trafigge la freccia dell’estasi divina” (Panorama, 21.7.2014).

5. L’imparzialissimo Johnny Riotta, che la scorticò all’Iiea: “Boschi subisce molte malignità dalla stampa italiana perché è bella e bionda, molto bella e molto bionda, ed è allo stesso tempo una giovane avvocato capace di mettere in soggezione e sa molto bene il fatto suo e io non vorrei mai essere dalla parte opposta alla sua a un tavolo di confronto” (9.9.2014).

6. Francesco Merlo, che inchiodò la Boschi e tutte le Renzi Girl da par suo: “Mogherini, Boschi, Madia, Guidi, Lanzetta e Pinotti non sono le rose del ventennio, né le lupe di Silvio e neppure le amazzoni di Bossi. Sono invece la dolcezza della gens nova, non affamate ma pronte a perdersi nella politica… rassicuranti e pacificanti custodi dell’irruenza del capo” (Repubblica, 22.2.2014).

7. Concita De Gregorio, talmente terza da sembrare quasi quarta: “Quelli che per Renzi sono slogan per Mattarella sono la misura e la forma naturale del pensiero. Nessuno sforzo, in entrambi i casi. I capolavori del resto hanno questo di speciale. L’assenza di sforzo apparente. Vedi un disegno fatto senza staccare la matita dal foglio, un tuffo da dieci metri senza schizzi, un ballerino che si alza di un metro da terra e pensi bello, facile. Poi sono Picasso, Greg Louganis e Nureyev ma tu sempre pensi: gli è venuto facile. Sorridono, quelli così. Non sudano, raramente fumano. Quando le porte dell’ascensore di Montecitorio si chiudono su Renzi e Boschi l’attenzione cade sui mutui sorrisi, sui gesti fluidi e confidenti, sull’assenza assoluta di segni di stanchezza e di fastidio dagli abiti senza una gora, dai volti senza un gonfiore da insonnia… Bravo Matteo, bravi tutti… Un capolavoro politico” (Concita De Gregorio, Rep, 1.2.2015).

8. Il superimparziale Sebastiano Messina: “La fascinosa portabandiera del governo Renzi ha smesso di sorridere, ha socchiuso gli occhi e – per la prima volta – ha alzato la voce… Si son girati tutti per vedere la ministra con gli occhi azzurri… che attaccava perentoriamente – perdendo di colpo l’imbarazzata dolcezza della matricola – gli avversari della sua riforma… Sembra quasi un’altra Boschi, quella che… teneva le mani giunte per precisare il concetto e poi le apriva per scandire la vacuità fasulla dei contestatori” (Rep, 22.7.2014).

9. Andrea Malaguti che, vergin di servo encomio, la aggredì col devastante “La Botticelliana e la Giaguara: Madia&Boschi, l’avanzata delle ‘amazzoni’ di Matteo” (Stampa, 22.12.2014) e ora è alfin direttore, ma sempre terzo.

10. Il mai schierato Mario Ajello: “Il fascino Maria Elena. La seduzione Boschi. I suoi sguardi salvano l’alleanza di governo e spianano la strada di Mattarella verso il Quirinale? Il ruolo della renzianissima non è quello della pasdaran. Tutt’altro: è quello della mediatrice dolce, della negoziatrice sweet-fascinosa che si ritaglia il ruolo della poliziotta buona – convincere gli alfanei col suo garbo, far riflettere i berlusconiani e rabbonirli col suo sorriso… Sweet Maria Elena faceva pure la parte della madonnina in un presepe vivente… Vestitino provenzale da madonnina aretina, all’inizio della giornata anche un golfino blu da collegiale (che poi si toglie quando il gioco si fa duro), calze nere e scarpe marroni. Lei li ammalia e loro sono ammaliati da lei” (Messaggero, 31.1.2015).

 


Ps. 
Problemino. Gli eccitati succitati erano così imparziali quando il duo Renzi&Boschi comandava. Ora che non conta una mazza, si rischia che siano un po’ meno terzi. Non ci sono più gli imparziali di una volta.

 

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Pesci d’aprile

L’editoriale di Marco Travaglio

Pesci d’aprile

Il Pd è in vena di pesci d’aprile. Dopo quello dell’altroieri sulle dimissioni della Santanchè, corre voce che ne abbia in serbo un altro fuori tempo massimo: la candidatura di Ilaria Salis, l’insegnante e attivista monzese arrestata 13 mesi fa a Budapest e tuttora detenuta in custodia cautelare con l’accusa di aver pestato a bastonate alcuni neonazisti con un gruppo di compagni. Sacrosante le proteste per le condizioni disumane delle carceri ungheresi (simili a quelle italiane) e la lunghezza del processo e del carcere preventivo (simile a quella italiana). Ma che c’entra tutto ciò col Parlamento europeo? Che senso ha chiedere gli arresti domiciliari per un’imputata in attesa di giudizio e poi candidarla per farla uscire con l’immunità senza neppure conoscere le eventuali prove a carico? E siamo sicuri che politicizzare il caso a un tale punto indurrà i giudici e il governo ungheresi a usarle il guanto di velluto anziché il pugno di ferro?

 

Il terzo pesce d’aprile sguazza da un bel po’: la candidatura di Marco Tarquinio, ex direttore di Avvenire, con furiose polemiche. Che girano intorno alla questione senza mai centrare il punto. Tarquinio non piace agli eurodeputati uscenti perché da capolista “ruberebbe un posto” (ma non sanno che ci sono le preferenze?). Non piace a femministe e Lgbtq+ perché è cattolico, antiabortista (ma va?) e contestò quel pastrocchio della legge Zan. Come se fosse l’unico: il Pd è nato proprio dall’unione degli ex comunisti Pci-Pds-Ds e degli ex democristiani Ppi-Margherita, quindi dov’è il problema? Tarquinio non piace neppure agli atlantisti, ex Pci ed ex Dc, perché è un cristiano vero. Fra Biden&Zelensky e Gesù&papa Francesco, sceglie sorprendentemente i secondi: condanna l’invasione russa dell’Ucraina, ma predica il negoziato e contesta l’invio di armi e l’escalation verso la terza guerra mondiale. Il guaio è che i cattolici pidini trattano il Vangelo, la dottrina della Chiesa, le parole del Papa e la Costituzione come optional. Infatti – a parte un paio – han sempre votato in Italia e in Europa, anche sotto la segreteria Schlein e il governo Meloni, per la guerra fino all’ultimo ucraino senza uno straccio di iniziativa negoziale. Sì ai due decreti Armi della Meloni (gennaio ’23 e febbraio ’24); sì al piano europeo Asap per usare fondi del Pnrr in armi e munizioni per Kiev (13.7.’23); sì alla risoluzione Von der Leyen per destinare almeno lo 0,25% del Pil a nuovi armamenti all’Ucraina fino alla “vittoria contro la Russia” e alla “riconquista di tutti i territori occupati, Crimea inclusa”, cioè per i prossimi due o tre secoli (29.2.’24). Salvo che non sia un pesce d’aprile o il Pd non non inverta la rotta con tante scuse, la candidatura di Tarquinio nel Pd sarebbe una tripla truffa: a Tarquinio, al Pd e agli elettori.

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Alabarda spaziale!

L’editoriale di Marco Travaglio

Alabarda spaziale!

Sembra ieri che la Russia aveva perso la guerra con la sua “Armata Rotta” (Stampa e Giornale). I suoi soldati andavano “all’assalto del nemico con le pale” (Corriere e Rep) e “i carri armati della seconda guerra mondiale” (Messaggero). E “non pale qualsiasi: un modello specifico che risale al 1869” (Open). Piangevano a dirotto: “Dobbiamo usare le dita come baionette?”. La loro “economia in rianimazione” e la loro “industria a pezzi e a corto di semiconduttori” li costringevano a “recuperare i chip per i carri armati da lavatrici, refrigeratori, addirittura tiralatte elettrici” (Messaggero) e “lavastoviglie” (Foglio). Tant’è che non si capiva come potessero, così mal ridotti, “arrivare a Lisbona” (Severgnini) o “a Rimini” (Di Bella, informatissimo sulla passionaccia di Putin per la piada e lo squacquerone). Poi nel settembre scorso, all’improvviso, gli stessi espertoni ci hanno informato che l’Ucraina, dopo due anni di trionfi, ha perso la guerra e la Russia, dopo due anni di disfatte, l’ha vinta. La sua economia in coma cresce sei volte la nostra. E la sua industria bellica, riciclando un frigo e una lavatrice oggi, una lavapiatti e un tiralatte domani, lancia “missili ipersonici troppo veloci per dare l’allarme: esplodono prima che suonino le sirene” (Rep). Dai tiralatte all’alabarda spaziale, al maglio perforante e alle lame rotanti di Goldrake, è un attimo. Non contento, in attesa di invadere Polonia, Baltici, Finlandia giù giù fino a Rimini e Lisbona per “distruggere l’Europa” (Corriere), il moribondo Putin si compra mezzo Europarlamento (Rep: “Moscagate, tremano i sovranisti”) e “invade i social italiani di fake news” sulla strage di Mosca (Rep) e “sulla salute di Kate” (Libero: come se non bastasse Bukingham Palace).

 

Ma questo è niente. SpiegelInsider e 60 Minutes hanno appena risolto il giallo della “sindrome dell’Avana”: “il nuovo incubo con cui il Cremlino sta terrorizzando diplomatici, agenti e funzionari americani e canadesi” che dal 2016 manifestano “attacchi di nausea, mal di testa, problemi di equilibrio, assordanti fischi alle orecchie, insonnia persistente, danni alla memoria, all’udito e alle capacità cognitive” (Rep). A parte l’acufene, è la diagnosi perfetta per Biden, che però è caduto nel pentolone da piccolo. Che c’entra Putin? Beata ingenuità: “Ufficialmente le cause dello strano malessere sono avvolte nel mistero”, ma dietro “potrebbe esserci una sofisticata arma a microonde impiegata dalle spie militari russe della famigerata unità 29155 in tutto il mondo”. Veri e propri “sicari” che però, anziché uccidere i nemici, si accontentano di rintronarli. Pare che alcune vittime denuncino anche pruriti, diarree, flatulenze e meteorismi, ma sono tutte intolleranti al lattosio: saranno i soliti tiralatte.

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Con scappellinamento

L’editoriale di Marco Travaglio

Con scappellinamento

Da quando, martedì sera su Rete4, Alessandro Orsini gli ha dato del cretino, Stefano Cappellini si è impegnato allo spasimo per dargli ragione. E ieri ci è riuscito senz’alcuna fatica. Nella quotidiana missione che lui stesso si è dato di decidere chi può parlare e chi no, ha stabilito che il fisico Carlo Rovelli non può parlare di guerra atomica. Rovelli aveva twittato contro le Sturmtruppen che preparano il terzo conflitto mondiale: “Fermatevi, pazzi! State trascinando l’Europa in una guerra enorme, in una catastrofe colossale… solo perché non siete più capaci di smettere di litigare dopo tutti gli insulti di cui vi siete riempiti la bocca per due anni!”. Apriti cielo. Il caporaletto di giornata l’ha zittito con una citazione ad mentula canis di Nanni Moretti in Sogni d’oro: “Parlo mai io di astrofisica?”. Peccato che Moretti si riferisse a chi parla di temi specialistici senza conoscerli, mentre Rovelli è un fisico teorico (non un astrofisico) e conosce benissimo le armi atomiche. Ma qui non discettava di fissione nucleare, bensì delle fregole belliciste degli sgovernanti europei. E quelle le vedono tutti e ciascuno è libero di temerle e denunciarle. Prima che uno scienziato, Rovelli è un essere vivente che tiene a restarlo. È un cittadino italiano ed europeo che ha tutto il diritto di criticare i governanti italiani ed europei su questioni tanto cruciali. Ed è un intellettuale che usa il suo prestigio per smascherare le imposture del potere, come hanno sempre fatto gli intellettuali prima di essere confusi con un Cappellini qualunque.

 

Un altro fisico teorico, Albert Einstein, tormentato dai sensi di colpa per l’uso che si fece dei suoi studi per fabbricare la bomba atomica e per aver convinto Roosevelt a dotarsene in funzione anti-nazista, chiese scusa e proclamò: “Non basta essere pacifisti, bisogna essere pacifisti militanti”. È un peccato che Cappellini non fosse nato, altrimenti avrebbe zittito anche lui. Ora, se Rovelli non ha titolo per parlare di guerra atomica, resta da capire che titolo abbia Cappellini per parlare di qualsiasi cosa (a parte l’astrofisica, da cui si astiene). Di solito parla di politica, ma non ci capisce nulla e colleziona figurine di emme più ancora di quando si avventura nella giudiziaria e negli esteri. Nel 2022 vaticina “la fine grillina”, poi rinviata a mai da una congiura degli elettori; si eccita per l’accordo Letta- Bonino-Calenda un minuto prima che Calenda molli i due per mettersi con un altro frequentatore di se stesso, Renzi; suggerisce al Pd di candidare la Moratti in Lombardia, grande “opportunità per indebolire la destra di governo” e ora quella si candida alle Europee con FI rafforzando la destra di governo. Potrebbe sempre darsi all’ippica, ma poi si zittirebbe da solo: “Sei forse un cavallo?”.

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Divani&Divani

L’editoriale di Marco Travaglio

Divani&Divani

Il divano si porta su tutto. Per anni è stato usato dalle destre, dunque anche da Renzi, per criminalizzare i disoccupati col Reddito di cittadinanza (che di solito non avevano nulla, tantomeno un divano). Ora la Meloni, arringando i soldati della missione Unifil in Libano, lo evoca per screditare i pacifisti che “si riempiono la bocca di pace comodamente seduti sul divano di casa”, mentre “la pace non si costruisce con i sentimenti e le buone parole, ma con la deterrenza”. Quante scemenze in così poche parole. La deterrenza – come nota Lucio Caracciolo – funzionava nella Guerra fredda con l’equilibrio del terrore fra i blocchi Est e Ovest, che garantivano le proprie aree di influenza figlie della spartizione di Yalta. Poi nel 1989 cadde il Muro di Berlino, il Patto di Varsavia si sciolse, l’Europa orientale divenne polvere e polveriera, alzarono la testa nuove potenze del Sud globale dalla Cina in giù, e le grandi organizzazioni terroristiche islamiste, mentre gli Usa tennero in vita la Nato credendosi l’unico impero rimasto con l’Europa al guinzaglio. Il risultato è la guerra mondiale a pezzi evocata dal Papa: nessuno fa più paura a nessuno e tutti attaccano tutti.

 

La Meloni dovrebbe sapere che la missione Unifil non fa alcuna deterrenza: esiste dal 1978, cioè dal primo attacco di Israele al Libano per ripulirne il Sud dallo stato nello stato creato dall’Olp in piena guerra civile, dopo la cacciata dalla Giordania nel Settembre nero 1971, e usato dai faddayin per colpire la Galilea del Nord. L’Onu, cessate le ostilità, inviò una forza di interposizione che poi sempre rinnovò dopo ogni crisi militare (le invasioni israeliane del 1983, 2000 e 2006, gli scontri fra milizie libanesi, le scorribande di Hezbollah). Cosa c’entri tutto ciò con chi invoca la pace non è dato sapere: né l’Ue né l’Italia fanno nulla per il cessate il fuoco in Ucraina e a Gaza. Anzi, in Ucraina continuano ad alimentare, ampliare e allungare la guerra inviando armi senza muovere un dito per aprire un tavolo. E, senza un negoziato e un cessate il fuoco, è impensabile che l’Onu invii una forza di interposizione fra i due eserciti, che la ridurrebbero in polpette appena arrivata. Quanto al divano, è un mobile perfettamente compatibile con la pace, mentre è totalmente incompatibile con la guerra. È chi invia continuamente armi a un Paese belligerante (fra l’altro in barba alla Costituzione) e predica soluzioni militari (la famosa “sconfitta della Russia” per liberare le quattro regioni occupate da Mosca nel 2022 e la Crimea annessa nel 2014 e rovesciare Putin) che dovrebbe alzarsi dal divano: prendere atto dopo 25 mesi che la guerra per procura non funziona, muovere le chiappe e darsi da fare per battere i russi sul campo. Arruolandosi volontario. Anzi, volontaria.

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Ha stato Conte

L’editoriale di Marco Travaglio

Ha stato Conte

Sta uscendo a puntate la nuova stagione della fortunata serie “Ha stato Conte”. Il quale lasciò Palazzo Chigi il 13 febbraio 2021 (1.130 giorni fa). Ma tutto ciò che accade di brutto nell’orbe terracqueo è sempre colpa sua. Invece le cose belle, tipo i 209 miliardi di Pnrr strappati in Europa nel 2020, mai: Sambuca Molinari e Severgnini scrivono che quei soldi li ha ottenuti SuperMario un anno prima di arrivare (con la sola forza del pensiero). Poi però Draghi e Meloni non riescono a spenderli e tutti tornano a scrivere che, sì, li ha ottenuti Conte, ma ne ha presi “troppi”. La puntata sul Superbonus è ancor più avvincente: varato il 19.5.2020, il 110% fu gestito per 8 mesi da Conte, per 17 da Draghi e per 17 dalla Meloni. Giorgetti l’ha seguito per 37 mesi, da ministro dello Sviluppo con Draghi e dell’Economia con la Meloni. E ora, tomo tomo cacchio cacchio, annuncia “norme per monitorare” il Superbonus “scriteriato e devastante per la finanza pubblica” e i nuovi bonus edilizi creati da lui, di cui ignora l’impatto dopo che il suo ministero ha sbagliato le stime di 60 miliardi. Ma la colpa è sempre di Conte, che aveva varato il 110% come misura provvisoria per rilanciare l’economia post-Covid (il più alto rimbalzo del Pil dell’intera Ue) e poi ricalibrarlo con un decalage negli anni seguenti, ma non poté farlo perché fu rovesciato e rimpiazzato da Draghi (che sul Superbonus pasticciò a lungo, ma senza mai denunciare alcun buco scriteriato e devastante) e da Giorgetti. Che ora finge di aver passato gli ultimi 37 mesi sulla luna: anche quando la sua Lega, FdI e FI promettevano di “mantenere e ampliare” il 100%; quando Giorgetta&Giorgetti s’inchinavano al Pacco di Stabilità franco-tedesco scriteriato e devastante che ci fregherà dai 13 ai 14 miliardi all’anno; e quando lasciavano alle banche miliardi di extraprofitti per non fare la bua a Mediolanum.

Ma la puntata più spassosa della serie è quella sui papaveri putiniani insigniti da Mattarella delle massime onorificenze repubblicane. Il radicale Giulio Manfredi ricorda a Francesco Merlo su Repubblica che nel 2017 il portavoce di Putin, Peskov, divenne Commendatore al merito: lo decorò personalmente Mattarella durante una visita di Stato a Mosca. Ma Merlo, dopo accurate indagini, scopre il vero colpevole: sono “le vergognose onorificenze elargite dai governi Conte-1 e Conte-2” e “ritirarle è difficile perché l’Italia filorussa è più forte e spavalda”. Quindi Conte, salito a Palazzo Chigi per la prima volta il 1°.6.2018, decorava putiniani a manetta già nel 2017, scavalcando l’allora premier Gentiloni e subornando il povero Mattarella, incapace d’intendere e volere. Ora Merlo è richiestissimo per la nuova serie “Balle spaziali”.

 

Sorgente ↣ : Ha stato Conte – Il Fatto Quotidiano

 

Tutte d’un prezzo

L’editoriale di Marco Travaglio

Tutte d’un prezzo

La sempre autorevole Repubblica informa che Putin ha avviato la campagna primavera-estate delle fake news: “I troll russi dietro i complottismi sulla salute della principessa Kate” (che invece, com’è noto, gode di ottima salute). Ma i troll russi una ne fanno e cento ne inventano, infatti hanno messo in bocca a Elly Schlein la candidatura di Lucia Annunziata alle Europee. Una bufala clamorosa, visto che l’Annunziata aveva lasciato la Rai il 3 settembre 2023 per non diventare una collaborazionista di quest’orrendo governo e giurando solennemente al Corriere: “Non mi candiderò mai e poi mai alle Europee. Né con il Pd, né con nessun altro partito. Spero che questa smentita sia chiara abbastanza per mettere tranquilli tutti”. Chiunque abbia minima contezza della sua tetragona coerenza può mettersi tranquillo: mai e poi mai troveremo il suo nome nelle liste del Pd o di alcun altro partito. Stiamo parlando di Lucia Annunziata, mica di una pagliaccia qualunque.

 

Un’altra fake news, talmente dozzinale da non poter che essere putiniana, è quella che vuole un’altra donna tutta d’un pezzo, Emma Bonino, alleata di Renzi e Cuffaro. Anche lei ha parlato chiaro e, quando parla, non cambia più idea. Il 1° agosto dichiarò al Corriere: “L’accordo è possibile, fermiamo la destra putiniana. Renzi in coalizione? No”. Perché “non vivo di rancori, a differenza sua”. Lui del resto nel 2014 l’aveva cacciata dalla Farnesina (“Non sapevo nulla, mi ha fatta fuori dal governo senza nemmeno una telefonata”). E lei l’aveva poi accusato di aver chiesto all’Ue “che gli sbarchi dei migranti avvenissero tutti in Italia in cambio di sconti sull’austerità”, cioè di aver “barattato i soccorsi con la flessibilità sui conti, violando di fatto Dublino”. Figurarsi se la leader di +Europa potrebbe mai allearsi in Europa con chi strinse quel “patto scellerato” con l’Europa. Ne andrebbe della sua cristallina linearità che le ha garantito poltrone e sofà dal lontano 1976 passando dai Radicali di Pannella a Forza Italia di B., Previti e Dell’Utri all’Ulivo di Prodi allo Sdi di Boselli alla Rosa nel Pugno alla Lista Sgarbi-Pannella al Pd a Tabacci ad Azione di Calenda e di nuovo al Pd di Letta. E figurarsi se potrebbe mai entrare in una lista “Stati Uniti d’Europa” dopo aver formato a Bruxelles nel 1999 il Gruppo tecnico dei deputati indipendenti con i peggiori nemici dell’Europa: quelli della Lega e del Msi-Fiamma Tricolore, i fascisti xenofobi belgi di Blocco Fiammingo e l’intera delegazione del Front National di Le Pen (non la moderata Marine: il suo fascistissimo padre Jean-Marie). Casomai servissero altre prove della falsità della notizia, ne basta una: un serio favoreggiatore della mafia come Cuffaro non si mescolerebbe mai con gente tipo Renzi e Bonino.

Sorgente ↣ : Tutte d’un prezzo – Il Fatto Quotidiano